Partiamo dai fatti, dalle poche certezze. Le perdite di gas dai due gasdotti Nord Stream, 1 e 2, affiorate simultaneamente in tre punti nel Mar Baltico, non sono dovute a malfunzionamenti o incidenti. Sono state provocate da due esplosioni sottomarine avvenute in acque internazionali.
Due esplosioni molto potenti (1,9 e 2,3 gradi della scala Richter) registrate lunedì, nelle stesse aree in cui il gas ha iniziato ad affiorare, dai sismografi svedesi, che hanno escluso potesse trattarsi di terremoti.
È stato dunque un atto deliberato di sabotaggio: qualcuno ha fatto saltare quei gasdotti.
Danni irreparabili
Se in un primo momento la società Nord Stream AG, che gestisce le due pipeline che collegano direttamente la Russia alla Germania, aveva parlato di “danni senza precedenti”, spiegando che “è impossibile in questo momento stimare la tempistica per la ripresa delle operazioni di ripristino”, ieri le autorità tedesche hanno espresso il timore che non ci sia più nulla da fare: le tre linee colpite “saranno inutilizzabili per sempre“.
Opera di uno Stato
Possiamo anche dare per certo, fino a prova contraria, che solo un’entità statuale ha le capacità e i mezzi tecnici per portare a termine un’operazione così complessa, a diverse decine di metri di profondità. Non opera di un sommergibile, secondo gli esperti.
Secondo fonti britanniche citate dal Times, lo scenario più probabile è che la Russia abbia lanciato un drone subacqueo con una carica esplosiva verso due diverse zone. “Potrebbero essere stati lì per mesi in attesa che gli venisse detto di esplodere”, e potrebbero essere stati innescati utilizzando “una fonte di rumore di una certa frequenza fatta cadere in acqua nel momento scelto”. Questo riguardo le modalità del sabotaggio.
Le reazioni contenute
Una prima stranezza la ravvisiamo nelle reazioni molto contenute e caute da parte di tutti gli attori coinvolti. Assordante il silenzio del governo tedesco. Ma anche Usa e Russia, che hanno evitato finora di lanciarsi accuse esplicite.
In effetti, accusare esplicitamente l’avversario del sabotaggio significa implicitamente ammettere di aver subito uno smacco enorme, qualcosa che non potrebbe essere lasciato senza una risposta proporzionata. Dunque, potrebbe non esserci grande interesse ad accertare le responsabilità pubblicamente.
Ieri mattina, il portavoce del Cremlino Peskov ha definito “prevedibile e prevedibilmente stupido” accusare la Russia del sabotaggio dei gasdotti Nord Stream. Curioso, però, che fino ad allora nessuno (nessun governo né organizzazione occidentale) avesse accusato direttamente la Russia, così come Mosca non aveva lanciato accuse, ma allusioni.
“Il presidente americano Joe Biden deve chiarire se vi siano gli Usa dietro gli incidenti avvenuti al Nord Stream”, ha affermato la portavoce del Ministero degli esteri russo, Maria Zakharova, citata dalla Tass. “Ridicolo”, ha risposto la Casa Bianca, in una dichiarazione quasi speculare a quella di Peskov.
E in serata un funzionario militare Usa ha chiarito che gli Stati Uniti “non sono assolutamente coinvolti“. Mosca ha fatto sapere che intende portare la questione al Consiglio di Sicurezza dell’Onu.
Vedremo. Tutti si difendono, ma nessuno accusa esplicitamente. E, soprattutto, considerando la gravità dell’accaduto, che rischia di sdoganare attacchi a infrastrutture critiche sottomarine (pensiamo ai cavi internet), sorprende il basso profilo delle reazioni sia di Mosca che di Washington, Londra e Berlino.
La pista americana
Da questo punto in poi entriamo nel campo delle supposizioni, delle congetture, è bene specificarlo. Non avendo a disposizione ancora prove o fatti ulteriori, la domanda da cui partire è: cui prodest? A chi giova?
Tra gli indiziati ci sono gli Stati Uniti. Washington non ha mai fatto mistero della sua contrarietà al gasdotto Nord Stream 2 e per diversi anni si è opposta alla realizzazione del progetto adottando sanzioni.
Viene citata in queste ore come “prova” una risposta del presidente Joe Biden in una conferenza stampa del 7 febbraio scorso, quindi poco prima dell’invasione russa dell’Ucraina, alla presenza del cancelliere Scholz: “Se la Russia invade, non ci sarà più un Nord Stream 2. Vi porremo fine”. Sì, ma come? “Vi assicuro, saremo in grado di farlo”.
Una decina di giorni prima, si era espressa in questo senso il sottosegretario di Stato Victoria Nuland: “Se la Russia invade l’Ucraina, in un modo o nell’altro Nord Stream 2 non andrà avanti”.
Alcuni mesi prima, nella primavera del 2021, Washington aveva concordato con Berlino il via libera al completamento del gasdotto, con la clausola che “se la Russia tentasse di utilizzare l’energia come arma o commettesse altri atti aggressivi contro l’Ucraina, la Germania agirà a livello nazionale e spingerà per misure efficaci a livello europeo, comprese sanzioni, che limitino le capacità di esportazione russe nel settore energetico“. Sanzioni, dunque, ma non la morte del gasdotto.
Una volta completata la posa dei tubi, tuttavia, il processo di autorizzazione per l’entrata in funzione si era di fatto bloccato, formalmente per motivi legali.
Appena la Russia ha invaso l’Ucraina, il 24 febbraio, Berlino ha deciso, in accordo con Washington, di sospenderlo anche ufficialmente a tempo indefinito.
Quindi, di fatto all’indomani dell’invasione le parole di Biden e Nuland avevano già prodotto il loro effetto. Nord Stream 2 era stato congelato. Ma su Atlantico Quotidiano avevamo spiegato come fosse più che altro un caso di morte apparente.
Il fatto che il gasdotto fosse comunque completato e pronto ad entrare in funzione lasciava teoricamente intatta la capacità della Russia di rifornire la Germania e la dipendenza di quest’ultima dal gas russo.
Tanto è vero che il presidente russo Vladimir Putin non mancava occasione per ricordare come i problemi energetici europei potessero essere risolti all’istante, attivando Nord Stream 2. L’ultima volta pochi giorni fa, al vertice di Samarcanda: “Dopo tutto, se sono così disperati, se tutto è difficile, togliessero le sanzioni sul Nord Stream 2. Si tratta di 55 miliardi di metri cubi all’anno, basta premere un bottone ed è tutto”.
Insomma, la tentazione c’era e avrebbe potuto prendere il sopravvento. Soprattutto nel caso di un inverno particolarmente freddo, la pressione dell’opinione pubblica e del mondo economico sul governo tedesco avrebbe potuto crescere.
Il sabotaggio dei gasdotti elimina questa tentazione e toglie da una posizione scomoda il governo tedesco. Per cui non si può nemmeno escludere che sia stata una decisione condivisa tra gli angloamericani e Berlino.
Nelle ultime settimane si erano intensificate le proteste in Germania contro il carovita e proprio pochi giorni fa migliaia di tedeschi sono scesi in piazza per chiedere di riaprire i flussi di gas dalla Russia, in particolare attivando il Nord Stream 2.
Va detto però che non vi erano segnali di una apertura imminente, né di un processo decisionale in corso a livello governativo. A meno che a Washington, grazie all’intelligence, non avessero una conoscenza più approfondita del dibattito interno e dei dubbi del governo tedesco.
All’esterno però arrivavano segnali che confermavano la volontà di affrancarsi dal gas russo: dalla decisione di rinviare la chiusura di due centrali nucleari, alle parole del primo ministro della Bassa Sassonia, Stephan Weil (SPD): il Nord Stream 2 “non sarà mai operativo”, neanche dopo la fine dell'”era Putin”.
Come abbiamo spiegato su Atlantico Quotidiano all’inizio del conflitto ucraino, recidere il legame strategico tra Germania (ed Europa) e Russia è per Washington obiettivo non secondario in questa guerra.
L’invasione russa dell’Ucraina ha infatti dimostrato (dovrebbero essersene convinti anche i più scettici) come la dipendenza tedesca ed europea dal gas russo – e il modello economico che si basa su di essa – fosse qualcosa di insostenibile dal punto di vista geopolitico. Perché mina le fondamenta non solo dell’Alleanza Atlantica, ma anche della sicurezza europea.
L’Europa infatti si troverebbe con le mani legate di fronte all’espansionismo russo e a qualsiasi azione aggressiva di Mosca (oggi l’Ucraina, domani chissà…).
Ci chiedevamo, lo scorso 23 febbraio: che succede se, in caso di crisi energetica dovuta ad una interruzione del flusso di gas russo, tra il rischio blackout e intollerabili costi economici e politici da una parte, e il Nord Stream 2 pronto dall’altra, Berlino sceglie il secondo?
L’entrata in funzione del Nord Stream 2 – contro il parere Usa e nel mezzo di un conflitto con la Russia – rappresenterebbe il definitivo sganciamento della Germania (e dell’Ue con essa) dall’alleato americano. Oltre all’Ucraina, gli Stati Uniti avrebbero perso anche la Germania, e l’Europa continentale, costrette dalla loro dipendenza energetica dalla Russia ad una posizione di neutralità, ma di fatto di subordinazione a Mosca.
La distruzione anche fisica dell’infrastruttura energetica che legava Russia e Germania rende irreversibile il processo di uscita dalla dipendenza dal gas russo e spinge Berlino ad abbandonare una certa pigrizia nel realizzare altre infrastrutture e trovare altri fornitori, come spiega Musso nell’articolo di oggi.
Insomma, se da una parte poteva esserci un interesse da parte Usa al sabotaggio dei gasdotti, dall’altra la tempistica non è convincente. Perché proprio ora? La prosecuzione della guerra, e anzi la recente escalation, con la mobilitazione parziale annunciata da Mosca, rendeva impensabile un’apertura di Nord Stream 2 nel breve termine.
Semmai, il rischio di un dietrofront tedesco avrebbe potuto manifestarsi dopo un cessate-il-fuoco in Ucraina, o dopo una eventuale rimozione di Putin dal potere.
Improbabile quindi che Washington abbia preso una iniziativa di tale gravità, rischiando una rottura traumatica dei rapporti con Berlino, senza una apparente urgenza.
La pista russa
Ma vediamo ora perché non possiamo escludere la pista russa. In molti si sono chiesti che interesse mai avrebbero potuto avere i russi nel distruggere una infrastruttura strategica costata miliardi di dollari, con la quale, sebbene il flusso di gas da Nord Stream 1 fosse già stato interrotto e da Nord Stream 2 non fosse mai partito, mantenevano comunque la loro leva energetica nei confronti dell’Europa e in particolare della Germania.
Volendo far restare l’Europa senza gas, gli sarebbe bastato chiudere i rubinetti, come avevano già fatto, non c’era bisogno di danneggiare irreparabilmente l’infrastruttura.
Sembra un’osservazione sensata, ma in realtà semplicistica. Primo, perché non basta chiudere i rubinetti. Ci sono dei contratti da rispettare, delle penali che si può essere chiamati a corrispondere. Il sabotaggio pone fine in un colpo solo a polemiche e contenziosi su presunti guasti usati come pretesto per giustificare la decisione, in realtà politica, di interrompere la fornitura.
Secondo, dopo il sabotaggio dei Nord Stream restano i gasdotti ucraini per far arrivare il gas russo in Europa. Gasdotti che però sono in zone di guerra, quindi potrebbe essere un atto propedeutico all’interruzione totale delle forniture causa forza maggiore, visto che l’Europa sta cercando altri fornitori e tra qualche mese Mosca potrebbe ritrovarsi senza questa leva.
Ma a far pensare che possa essere stata opera di Mosca è il fatto che mentre entrambe le linee del Nord Stream 1 sono state irreparabilmente sabotate, solo una delle due linee del Nord Stream 2 è stata colpita. L’altra è ancora in grado di esportare gas. Difficile immaginare che sia stata risparmiata per puro caso. E certamente, se gli Usa si fossero assunti un tale rischio, avrebbero perlomeno portato a termine il lavoro.
Chi ha compiuto l’attacco invece ha deliberatamente lasciato una capacità di 27,5 miliardi di metri cubi l’anno sui complessivi 55 del gasdotto. Non pochi. Dunque, Putin può ancora far leva sull’apertura del Nord Stream 2, della linea che resta, per risolvere la crisi energetica europea. Anzi, a maggior ragione: l’argomento a favore dell’apertura del Nord Stream 2 è ora rafforzato dalla distruzione del Nord Stream 1.
Ma c’è un’altra ipotesi che non può essere scartata e che porta al Cremlino. Immaginiamo infatti che a Mosca si siano ormai convinti che l’hub energetico russo-tedesco sia perduto, irrecuperabile, e di dirottare il proprio export di gas verso la Cina.
In questa direzione va il recente avvio del progetto del gasdotto Power of Siberia 2, che porterà il gas russo in Cina attraverso la Mongolia, di fatto sostituendo Nord Stream 2 (50 miliardi di metri cubi l’anno).
In questa prospettiva, il sabotaggio dei gasdotti Nord Stream renderebbe irreversibile la svolta verso Pechino, alla quale ormai è strettamente legata la stessa permanenza al potere di Vladimir Putin.
Se infatti il sistema di potere russo non fosse così compatto, se qualcuno a Mosca non volesse bruciare i ponti con l’Europa, se volesse salvare l’hub del gas russo-tedesco, dovrebbe come prima cosa far cessare la guerra e liberarsi di Putin. Finché Putin è al potere, è impensabile un reset energetico tra Russia e Germania.
Facendo saltare Nord Stream il presidente russo toglie di mezzo questa prospettiva. Chiaro il suo messaggio alla ipotetica fronda interna: “Non ci sarà alcun ritorno allo status quo ante”, scordatevi che si possano normalizzare i rapporti con l’Europa e l’Occidente e smettetela di provarci.