Esteri

Le tre mosse disperate di Putin e la tentazione di una “pace” ingiusta

Non potendo vincere sul campo, Mosca cerca la rottura del fronte pro-ucraino dinanzi al rischio guerra totale. Dopo le annessioni, spera nel pressing occidentale su Kiev

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Con le annessioni spera di presentare il fallimento dell'”operazione speciale” come una missione compiuta e la controffensiva ucraina come un attacco diretto alla Russia

In un discorso televisivo trasmesso con 12 ore di ritardo rispetto al previsto, Vladimir Putin prova a recuperare l’iniziativa persa dopo i rovesci del suo esercito in Ucraina.

Nel solito esercizio retorico da realtà capovolta (l’Occidente vuole distruggere la Russia, ci hanno costretti a iniziare l’operazione speciale, ci ricattano con il nucleare – sic! – ma il vento può soffiare in direzione opposta), il despota del Cremlino ha toccato sostanzialmente tre punti: i referendum di annessione dei territori occupati dalle forze russe, la mobilitazione dei riservisti e la possibilità di usare armi nucleari in caso di attacco diretto contro la Russia.

Un messaggio di apparente fermezza rivolto a una popolazione che comincia a diffidare della versione ufficiale sulla “guerra difensiva” e la “denazificazione”, ma soprattutto a Kyiv e ai suoi alleati occidentali che da qualche settimana intravedono la concreta possibilità di una vittoria sul campo e perfino di una completa liberazione del Paese.

In realtà un disperato tentativo, quello di Putin, di salvare il salvabile, sia sul versante militare che su quello politico interno.

Le annessioni

A una settimana dalla disfatta sul fronte orientale, una Russia in evidente difficoltà nel condurre a termine l’invasione dell’Ucraina accelera quindi il processo di incorporazione dei territori occupati con l’annuncio di quattro referendum di annessione nelle auto-proclamate repubbliche del Donbass (le province ucraine di Donetsk e Lugansk) e nelle regioni meridionali di Kherson e Zaporizhzhia.

Una mossa attesa ma finora rinviata a data da destinarsi, che da ieri è diventata la politica ufficiale di Mosca in collaborazione con le amministrazioni-fantoccio installate nelle principali aree sotto il controllo russo. I primi plebisciti si terranno tra il 23 e il 27 settembre.

L’avanzata ucraina ad est mette a rischio la tenuta e la stessa sopravvivenza delle autorità filo-russe del Donbass, già oggetto di attentati e sabotaggi da parte della resistenza. Bisogna fare in fretta, anche per accontentare il partito dell’escalation, l’ala più oltranzista del sistema che spinge per la guerra totale.

La mobilitazione parziale

Intanto la Duma di Stato ha approvato una modifica al codice penale militare, introducendo la fattispecie della diserzione in caso di “legge marziale o mobilitazione”.

Con la dichiarazione di mobilitazione “parziale” – che coinvolge 300.000 uomini, ha poi specificato il ministro della Difesa Shoigu – Putin trasforma di fatto la sbandierata “operazione speciale” in una dichiarazione di guerra ufficiale, con la conseguente chiamata alle armi di parte della popolazione attiva e del complesso militare-industriale.

Una misura estrema che assomiglia molto a una fuga in avanti, nel momento in cui gli obiettivi dell’aggressione armata lanciata contro l’Ucraina il 24 febbraio scorso sembrano allontanarsi irrimediabilmente.

Al di là delle possibili ripercussioni interne, è difficile che il provvedimento in sé possa cambiare sostanzialmente la situazione bellica in senso favorevole a Mosca. Decisa in un momento di forte sbandamento dell’esercito occupante, è da interpretare più in chiave difensiva che come misura di sfondamento, senza contare le difficoltà logistiche per renderla effettiva.

La minaccia nucleare

Dal punto di vista politico invece, considerata in combinato disposto con i referendum di annessione, riveste una certa rilevanza perché permette alla Russia di presentare la controffensiva ucraina come un attacco diretto contro territori della Federazione, realizzato oltretutto con armi occidentali.

Davanti alla concreta possibilità che l’avanzata ucraina continui verso le regioni formalmente annesse, Putin gioca la doppia carta della mobilitazione e della minaccia nucleare, a quel punto giustificabile – dal punto di vista del Cremlino – in un’ottica difensiva.

L’incorporazione anticipata del Donbass e dei distretti del Sud rappresenta nel disegno di Mosca l’unica possibilità di contrarrestare i successi militari dell’esercito ucraino: non potendo vincere sul campo, la Russia cerca la rottura del fronte pro-ucraino e la resa di Kyiv di fronte alla prospettiva di una guerra totale.

Il fallimento come missione compiuta

L’annessione dei territori occupati tramite la finzione democratica di un referendum dal risultato scontato ha infatti come obiettivo principale quello di porre il legittimo governo di Zelenskij e la comunità internazionale di fronte al fatto compiuto, imponendo de facto lo scenario allestito da Mosca come sfondo di una possibile trattativa.

Da giorni il presidente turco Erdoğan si muove come portavoce ufficioso del Cremlino, rilasciando dichiarazioni sulla presunta “volontà di pace” di Putin e su un possibile ritiro russo. E dopo Samarcanda Putin si è probabilmente reso conto che l’appoggio cinese non è così incondizionato come pensava.

Ma per trovare una via d’uscita da una guerra che si è avvitata su se stessa, il Cremlino non può semplicemente ordinare il dietrofront delle truppe e alzare bandiera bianca: deve presentare il fallimento della “operazione speciale” come una missione compiuta.

L’incremento territoriale ai danni dell’Ucraina “ribelle” è il massimo risultato che il putinismo può portare a casa in questo momento, anche se riconosciuto soltanto dai suoi più stretti alleati e/o vassalli.

Il pressing su Zelensky

Dopo i referendum-farsa la pressione si sposterà su Volodymyr Zelenskij e c’è da scommettere che da Parigi e Berlino (e forse anche da Roma) comincerà un intenso pressing sottobanco per convincerlo a trattare: cessione di territori in cambio del ritiro dell’armata russa dal resto del Paese.

Se questa linea dovesse prevalere, contro la stessa volontà degli ucraini, non rappresenterebbe soltanto la fine dell’Ucraina come nazione sovrana e la premessa di un conflitto permanente nell’area, ma soprattutto la resa dell’Occidente davanti alla politica di sopraffazione di un despota orientale.

Se invece le dichiarazioni ufficiali di appoggio – no al riconoscimento dei plebisciti, sostegno militare continuato a Kyiv, rispetto dell’integrità territoriale dell’Ucraina – saranno seguite dai fatti, la Russia sarà costretta a un impegno prolungato e sempre più gravoso nel settore sud-orientale, che nemmeno una mobilitazione permanente potrebbe sostenere sul lungo periodo.

Per adesso da Washington i segnali sono incoraggianti e perfino Macron sembra mantenere la rotta, ma la tentazione di una pace ingiusta è sempre dietro l’angolo, soprattutto con l’inverno alle porte e l’intensificarsi delle misure attive dei servizi russi in Europa.

Questa mattina – a scanso di equivoci – Putin si è incaricato di confermare che c’è un solo cammino in grado di garantire la pace e la libertà nel continente europeo: la sconfitta definitiva della Russia e la fine del suo regime.

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