Come Atlantico Quotidiano ha magistralmente riportato, la Cina è partita con una offensiva propagandistica volta a promuovere la sua immagine, a ripulirla, dopo che il nuovo coronavirus dalla città di Wuhan si è diffuso a livello globale. La mancanza di trasparenza, anche in ambito scientifico, e di libertà d’espressione, aspetti costitutivi del regime di Pechino, hanno giocato un ruolo decisivo nel ritardo, forse di due mesi, nel dare l’allarme, impedendo al resto del mondo a riconoscere l’uragano in arrivo. Dalla diffusione di fake news all'”infiltrazione” di agenzie di stampa estere (come la nostra Ansa), dalla “scienza di Stato” alla propagazione di teorie del complotto anti-americane ed anti-scientifiche, il Partito Comunista Cinese dimostra di saper usare tutte le armi della propaganda. Ed ecco che da “colpevole”, Pechino cerca di presentarsi come modello esemplare, vittorioso sul virus grazie alla sua efficienza e senso di sacrificio, e ora misericordiosamente disposto ad aiutare altri Paesi in difficoltà.
A questa offensiva “ibrida”, Europa e Stati Uniti dovrebbero opporre una propria controffensiva su più livelli che possa bilanciare e schiacciare le false verità propagate da Pechino, e ridurre il distruttivo ruolo della potenza comunista negli affari internazionali. Innanzitutto, dovrebbero cercare di chiarire pubblicamente le responsabilità nell’origine della crisi sanitaria. I Paesi europei non possono permettersi di lasciare che siano solo gli apparati Usa a rispondere alla guerra informativa cinese. I leader del Vecchio Continente dovrebbero esplicitare le responsabilità attribuibili alla Cina comunista, invece di parlare di guerra contro un virus che, nei loro discorsi, pare sia arrivato dal nulla. La provenienza va ricordata perché significa rispondere alle accuse implicite di inefficienza e obsolescenza della democrazia che stanno arrivando da Pechino. Se è vero che il regime ha adottato draconiane misure di contenimento, è vero anche che una democrazia può garantire standard di trasparenza che avrebbero potuto impedire la nascita o la propagazione del virus, o perlomeno i gravissimi ritardi nel dare l’allarme. Pur nella sua oramai scaduta reputazione, l’Ue, come potenza normativa, può essere utile nell’unico campo in cui può farsi ascoltare all’estero, in cui ha la statura per fare la differenza. La stessa Commissione dovrebbe rispondere colpo su colpo ad ogni fantasiosa versione proveniente da Pechino, e, dato che la politica commerciale è sua materia esclusiva, sarebbe il momento di riaprire la questione dell’assoluta mancanza di condizionalità nel commercio con la Cina. Tra l’altro, la traiettoria del virus ha seguito esattamente le quote di export verso il gigante comunista. La Germania, che ha avuto il paziente 0 d’Europa, è il primo Paese europeo esportatore, ed il nord-est italiano è strettamente integrato nella filiera produttiva tedesca.
Dovrebbe essere impedita l'”infiltrazione” dei media di stato cinesi nei nostri, sulla scorta dell’accordo tra Ansa e Xinhua per la pubblicazione di articoli dai toni propagandistici. Bisognerebbe assumere un atteggiamento più intransigente nei confronti dell’influenza cinese nelle organizzazioni internazionali (come l’Oms), parte importante della strategia di contro-globalizzazione di Pechino. Rappresentanti cinesi sono a capo di varie agenzie Onu, tra cui Liu Fang all’Organizzazione internazionale dell’aviazione civile (Icao), la quale, dal 2015, ha completamente escluso Taiwan dall’assemblea dell’organizzazione. Lo stesso Oms ha smesso d’invitare Taiwan, stato osservatore, alle assemblee escludendolo dalla condivisione di vitali informazioni. Già nel 2002, all’epoca della SARS, Taiwan fu esclusa dai canali informativi riguardante l’agente patogeno a causa del veto cinese. Ciò ha avuto conseguenze anche nell’attuale epidemia, nonostante le formidabili capacità taiwanesi di contenimento. Secondo Richard Bush del Brookings Institution, “a livello pratico, ciò significa che alcuni tipi d’informazioni che l’Oms acquisisce come fatto normale non sono disponibili a Taiwan, nonostante presenti alcuni casi, e malgrado possa contribuire alla comprensione e al monitoraggio della malattia”. Come noto, inoltre, lo stesso direttore generale dell’Oms, Tedros Adhanom Ghebreyesus (che, peraltro, ha sostituito un direttore di nazionalità cinese nel 2017), ha elogiato la Cina: “Apprezziamo la serietà con cui la Cina sta affrontando questo focolaio e la trasparenza che ha dimostrato”. Gli Stati Uniti e i Paesi europei hanno l’imperativo strategico di contrastare Pechino nei suoi interessi più delicati, per esempio promuovendo una maggiore inclusione di Taiwan nel consesso internazionale e impedendo la promozione di cinesi a capo delle agenzie Onu se eccedono la distribuzione di quote per Paese – come è il caso attuale dato che quattro delle 15 agenzie specializzate dell’Onu sono guidate da uomini di Pechino.
L’Italia, dal canto suo, dovrebbe sentirsi direttamente danneggiata dalla gestione dell’epidemia da parte del governo cinese. La nostra recessione appare inevitabile. È il momento opportuno per ricordarci di un certo Memorandum of Understanding che, su spinta del M5S, il governo gialloverde firmò nel quadro della Nuova Via della Seta, che non è altro che l’espressione del tentativo cinese di “risorgimento nazionale” per espandere la propria sfera d’influenza, sfidare gli Stati Uniti e, in futuro, contenderne la leadership mondiale. Data l’assoluta a-strategicità della nostra adesione al progetto egemonico dello stato rivale del nostro più grande alleato, gli Stati Uniti, il governo italiano dovrebbe uscire dal Memorandum e chiarire la sua collocazione nella nuova Guerra Fredda che si annuncia.
In conclusione, nel suo percorso verso lo status di superpotenza la Repubblica Popolare Cinese si avvale di qualsiasi strumento possibile. Lo stesso coronavirus sta rientrando interamente nel tentativo di far percepire positivamente la leadership cinese nel mondo. Sul piano economico, l’Italia deve commerciare con la Cina avvalendosi della golden power nei suoi settori strategici e seguendo l’interesse nazionale del capitalismo italiano, senza orientali inchini al Dragone. Sul piano strategico, il nostro Paese deve puntare alla stabilità del Mediterraneo, ed il miglior modo per farlo è intendersi con chi lo controlla sostanzialmente, ovvero la flotta americana. Scioglierci in amorosi sensi con le ambizioni cinesi ci esporrebbe a rappresaglie insostenibili. Infine, sul piano multilaterale, l’Alleanza Atlantica dovrebbe far fronte alle molteplici sfide di Pechino.