Da una parte l’appeasement delle elites europee con Pechino, dall’altra le distrazioni dei giovani. In mezzo, la commovente resistenza delle nuove generazioni di Hong Kong e la repressione orwelliana nello Xinjiang
Cambiano i tempi e gli scenari, i protagonisti della politica si susseguono e le ideologie si evolvono. Così sembra trascorsa un’eternità da quando il dibattito internazionale contrapponeva due fronti ben delineati: da una parte gli Stati Uniti di George W. Bush alle prese con la guerra contro il terrore dopo l’11 settembre 2001 e dall’altra gli attivisti che si mobilitavano per protestare contro gli interventi militari. Si discuteva sulla possibilità di esportare il modello democratico in regioni sotto un controllo autoritario, di ideali neoconservatori e di status quo. Scenari che oggi appaiono lontani, un capitolo chiuso del nuovo secolo, ma aiutano a valutare come siano cambiati gli equilibri e soprattutto gli approcci davanti ai grandi temi internazionali.
Dall’interventismo all’immobilismo, con gesti di disattenzione se non addirittura di accondiscendenza, in nome di una rinnovata realpolitik che ha fatto presa anche negli ambienti più sensibili – almeno sulla carta – ai diritti umani. La democrazia per come la intendiamo noi non è stata esportata, anche se a guardare indietro colpiscono ancora le scene degli iracheni che uscivano dai seggi elettorali con il dito pitturato di viola a testimonianza del voto esercitato, ma nel frattempo siamo giunti nel 2019 con i ragazzi di Hong Kong isolati dal resto dell’opinione pubblica mondiale, così come il milione di internati nei campi di concentramento nello Xinjiang. Non ci sono manifestazioni, slogan, hashtag e flash-mob degni di nota. I giovani universitari occidentali preferiscono imbastire vuote discussioni su safe spaces e comfort zones e climate change all’interno delle quali isolarsi, se si sentono offesi dalle critiche, o si ammassano come sardine nelle piazze per protestare contro un’opposizione e non il governo. Mentre il presidente Trump firma la legge a sostegno dei manifestanti di Hong Kong, e Pechino convoca l’ambasciatore Usa in Cina, gli uomini e le donne al vertice di stati europei e di organizzazioni internazionali chiudono entrambi gli occhi e in nome del bene comune preferiscono non interferire. Questa la linea dettata da Pechino, seguita alla lettera.
È uno scenario desolante, perché quando si tratta di esprimersi sui valori democratici e di tolleranza verso i propri cittadini non lesinano ramanzine, ma ripiegano in ritirata quando serve criticare Pechino. Lo ha fatto da ultimo anche Papa Francesco, dichiarando che non c’è solo Hong Kong, è “una cosa più generale” (dal Cile ai gilet gialli nella democratica Francia passando per la Spagna), “problemi che io in questo momento non sono capace di valutare” e comunque “conviene relativizzare le cose”. Prima di aggiungere: “Mi piacerebbe andare a Pechino, io amo la Cina”. Le parole hanno un peso, sicuramente ne è a conoscenza una persona di intelletto come il pontefice – che si ritiene “capace di valutare” dossier politici molto complessi sui quali interviene di continuo – che quindi le avrà valutate con molta attenzione… L’adesione politica dell’Italia alla Nuova Via della Seta serve anche (e si spiega con) gli interessi del Vaticano, che con Pechino ha di recente firmato un accordo segreto aprendo un reciproco credito politico.
Ma anche nell’Unione europea sono in parecchi ad amare la Cina. Angela Merkel ha aperto le porte ad Huawei per lo sviluppo della rete 5G e non si è fermata nemmeno davanti alle critiche ricevute durante l’ultimo congresso della CDU dove sulla spinosa questione ha prevalso la corrente contraria all’ingresso dell’azienda cinese, ribadendo al Bundestag che è necessario un approccio unitario tra i Paesi europei per non allontanare Pechino. A Roma i grillini sono usciti allo scoperto da tempo. Luigi Di Maio da ministro dello sviluppo economico ha firmato il famoso memorandum sulla Nuova Via della Seta, da ministro degli esteri è tornato a Shanghai ad inizio mese e ha goffamente dribblato qualsiasi considerazione su quanto stesse accadendo a Hong Kong. Lo ha imitato il ministro dell’istruzione Lorenzo Fioramonti, mentre Beppe Grillo, in ore critiche per la tenuta del governo, faceva visita all’ambasciatore cinese a Roma.
Basta poi seguire il pensiero di Romano Prodi per rendersi conto che c’è chi ammicca anche a sinistra. L’ex premier la scorsa primavera si era pubblicamente sbilanciato (“mi sembra che l’Italia debba svegliarsi e prendere la parte dei traffici verso Est”), ha indicato la Cina come alternativa commerciale agli Stati Uniti del fastidioso Donald Trump e infine si è totalmente allineato alle posizioni della Merkel anche nell’infilzare il presidente francese Emmanuel Macron sulla sua recente intervista all’Economist, che non è piaciuta affatto a Berlino.
A maggio nel Regno Unito era invece rotolata la testa dell’allora ministro della Difesa Gavin Williamson, colpevole di aver fornito alla stampa una soffiata per portare allo scoperto le trattative tra il defunto governo di Theresa May e l’onnipresente Huawei per il 5G Oltremanica, mentre il filosofo Roger Scruton veniva sottoposto ad un’esecuzione mediatica per alcune affermazioni troppo imbarazzanti sul modus operandi del Partito comunista cinese.
Trattative, geopolitica, pesi e contrappesi che dettano le agende internazionali degli esecutivi del Vecchio Continente tra strette di mano e summit, mentre la montagna di moniti ai sacri principi democratici riservati all’opinione pubblica europea collassa di fronte al frastuono del silenzio sulle violenze nell’ex colonia britannica e sui nuovi laogai nello Xinjiang. Da un lato, il consolidato vizio dell’appeasement di una classe dirigente che non perde tempo a dirsi preoccupata e costernata per le sanzioni economiche di Washington e al contempo ambisce a giocare alla pari con il dragone cinese, muovendo soldatini di carta. Dall’altro, la complicità di chi non perde occasione di scendere per le strade contro gli Usa o in nome di una maggiore equità e della salvaguardia del futuro dell’umanità, che – bisognerebbe ricordare – non è legata esclusivamente all’ambiente, ma anche alle sfere individuali di libertà. Nel mezzo, la commovente resistenza delle nuove generazioni di Hong Kong.
E pensare che nel 2001 il cattivo era George W. Bush.