Appare ricorrente nella favolistica progressista l’espressione “una conquista di civiltà”, a supporto etico-politico di una qualche rivendicazione, senza dar forma storica a questa espressione, quasi che esistesse una civiltà astratta, condivisa idealmente in tutta la Terra. Il che non è mai stato e non è tutt’oggi, perché la realtà ci insegna essere esistita ed esistere più di una civiltà, radicata in credenze, tavole valoriali, culture, tradizioni diverse. E la loro competizione spesso cruenta ha segnato e caratterizzato i secoli, come ben testimonia l’affermarsi dall’una e dall’altra parte del mediterraneo di due civiltà, la cristiana e la islamica, saldamente ancorate a due fedi contrapposte, che, al di là di ogni falsificazione di comodo, restano tali a tutt’oggi: la prima depurata da ogni pretesa teocratica, in forza di una tormentata secolarizzazione; la seconda cristallizzata in ogni visione religione-centrica, esente da ogni contaminazione laica. Per vederne la diversa caratura bisogna osservarle in opera nei Paesi dove si sono imposte, modellandone lo sviluppo, cioè, tipicamente nei Paesi europei ed arabi; non dove costituiscono minoranze significative in ragione di una forte corrente migratoria, seppur anche qui tendono a costituire delle enclave, tanto più forti e impenetrabili nel profondo, quanto più si rivela difficile superare l’estraneità esistenziale rispetto alla terra di adozione.
Nonostante le illusioni a piene mani sparse dagli aperturisti a tutto tondo, cui appartiene anche il nostro Papa – cui, però, va dato atto di parlare con l’occhio ad un al di là dove i conti torneranno tutti a favore del suo credo rivelato – la partita è in pieno svolgimento. Per anticiparne in linea di massima la conclusione, basta riprendere in mano la maestra di vita, la storia, la quale ci insegna che a pesare sull’esito del confronto sono tre condizioni basilari: la demografia, la ricchezza/povertà relativa, la radicalità di un’identità condivisa.
Due di queste attengono al travaso dell’una nell’altra, in ragione di una forte pressione migratoria dall’area territoriale di sviluppo della civiltà islamica a quella di insediamento della civiltà cristiana, a cominciare proprio dalla demografia, la vera legge della conservazione di una civiltà, anche se, vista la sua dinamica assai lenta, richiama scarsa attenzione, a parte tornare sulle pagine interne dei quotidiani in occasione di un censimento o di un rilevamento. Da questo punto di vista non c’è storia, nei Paesi europei ci si diletta ad arricchire l’alfabeto delle “varianti sessuali”, giungendo a dar rilevanza penale ad una “identità di genere”, che sembrerebbe riecheggiare il motto cartesiano (cogito ergo sum) penso di essere maschio o femmina, quindi lo sono sulla sola parola; mentre le culle restano drammaticamente vuote. Nei Paesi arabi queste dotte disquisizioni e pratiche sono condannate dalla sharia, addirittura reprimibili con la lapidazione, mentre le nascite sono sovrabbondanti rispetto ai territori di appartenenza.
Ad alimentare l’emigrazione non è solo la demografia, bensì anche la ricchezza/povertà relativa, cioè la differenza socio-economica fra le due aree, poste sulle opposte sponde del Mediterraneo, dovuta certo alla carenza delle condizioni minime di sopravvivenza; ma anche dove tali condizioni esistono, alla continua sollecitazione di aspettative di vita ben migliori, con la disponibilità, vista come a portata di mano di beni, lavori, servizi, una vetrina luccicante giorno e notte dagli schermi dei computer e degli smartphone.
Ma a contare è la radicalità di una identità condivisa che caratterizza questa emigrazione, che, certo rappresenta una novità rispetto alle “invasioni barbariche” che hanno segnato la storia europea, dato che queste erano caratterizzate da popoli privi di una caratterizzazione culturale forte che andasse al di là della comunanza etnica, tanto da assimilarsi rapidamente, se pur alimentando con profili propri l’autentico crogiuolo della c.d. civiltà occidentale. Non è affatto così con l’identità musulmana, straordinariamente invasiva e pervasiva dell’area nevralgica del privato, con al centro l’etica coranica della famiglia, costruita su un patriarcato che, prima di essere di costume, è di fede, tale da garantirne la trasmissione generazionale.
Solo poche pennellate di una scena ben più complessa. A volerle mettere in politica, a me sembra che l’Europa tutta, a cominciare dall’Italia, non possa contare alla bisogna su una sinistra radicalizzata, che sembra pretendere ad essere la sommatoria delle minoranze, razziali, migratorie, sessuali, affette da povertà estrema con una tentazione olistica, di rappresentarle tutte in ragione di una credibilità acquisita sulla scena di una contrapposizione di classe ormai quasi del tutto svaporata. Se dovessi rendere la cosa nella lingua marxiana, ma ancora ricorrente come natia da parte della sinistra estrema, l’attenzione è tutta concentrata sulla sovrastruttura, tanto da esaurirsi sostanzialmente in una fiducia nella legge e nella giustizia penale, quest’ultima rivelatasi una risorsa insostituibile a compensazione di una debolezza di presa elettorale della cui vera ragione si è ostinata a non prendere atto, cioè l’incapacità di coinvolgere in un disegno unitario i c.d. ceti produttivi. D’altronde, stando al prevedibile futuro non sarà il centrosinistra, Pd e 5 Stelle, a prendere in mano il Paese alle prossime elezioni politiche, che, comunque, dovranno svolgersi nel 2023; sarà il centrodestra, solo per questo sarebbe estremamente opportuno realizzare riforme e realizzazioni richieste dal Next Generation EU, con la più larga convergenza, perché l’illusione di poter ingabbiare la futura maggioranza – con qualche forzatura parlamentare da realizzare prima di quella fatidica data – mi sembra illusoria e controproducente.
D’altronde, la partita a cui il Pd aveva condizionato tutta la sua politica contraria ad anticipare le elezioni politiche, era quella dell’elezione del presidente della Repubblica, così da poterne piazzare un terzo uscito dalle sue file, dopo Napolitano e Mattarella, contando sulla forza di riequilibrio di un presidente sintonico, una volta condannato all’opposizione. La cosa, ora, è diventata assai dubbia, perciò l’intero scenario che si prospetta, tenuto anche conto del carattere problematico di un affidamento su una alleanza elettorale coi 5 Stelle, costringe il neosegretario Letta a tentare lo sfondamento sul progetto di legge Zan, con una sorta di “o la va o la spacca”, che di per sé è sintomo di un grande nervosismo.
Il centrodestra sembra avere la strada aperta, a prescindere da come vada la vicenda della federazione salviniana, addirittura con la prospettiva berlusconiana del partito unico. Ne è all’altezza? Non è questione che debba essere una “destra liberale”, come vocifera il Pd, che, però riesce a definirla solo in negativo, l’esatto contrario della “destra illiberale” di Orban, come se in merito di stato di diritto in ragione della gestione della giustizia penale avessimo una coscienza illibata. Tanto perché si parla di destra e non di centrodestra, quasi a voler dare per scontato che il centro appartiene al Pd o ai 5 Stelle; e poi, perché liberale è parola troppo importante per essere spesa come fa il Pd: una volta il Pci voleva che la Dc non fosse reazionaria, ora il Pd, figlio del più camaleontico processo partitico del Dopoguerra, si accontenterebbe che la destra fosse liberale, peraltro in una versione che ricorda l’araba fenice, “ognuno sa che c’è, ma nessuno sa dov’è”.
Se sono vere le problematiche evidenziate per quel che riguarda il futuro della nostra civiltà, che chiamo nostra con un profondo senso di orgoglio, a dispetto di una cancel culture – che, a dirlo con una immagine, equivale a segarsi il ramo su cui si è seduti – un centrodestra di governo dovrebbe realizzare una politica della famiglia, quella considerata dalla nostra Costituzione come società naturale, che nella lingua arcobaleno viene declassata a biologica, con la presunzione che questo faccia differenza. La diversità nella azione politica rimane fondamentale, per la famiglia di cui agli art. 39 e 40 ci deve essere una massiccia attività promozionale, non solo finanziaria ma anche culturale; se si vuole fare una giornata nazionale la si faccia per la famiglia c.d. tradizionale, per la sua importanza non solo strutturale, di riproduzione fisica e culturale, ma anche congiunturale, come supporto sociale e economico delle nuove generazioni. Altra cosa vale per le c.d. famiglie arcobaleno, cui si deve la garanzia piena a fronte di ogni discriminazione, ma esse rispondono a programmi di vita individuali di personale realizzazione che non possono certo vantare la stessa strategica importanza della famiglia c.d. tradizionale.
Quanto all’immigrazione, è ora di finirla con questa telenovela delle collocazioni obbligatorie o anche solo incentivate negli altri Paesi europei che addirittura vantano numeri più elevati nei nostri; se anche tali collocazioni passassero a livello europeo, richiederebbero inevitabilmente un controllo dei flussi, quindi il punto dolente rimane sempre questo. Certo, è perfettamente condivisibile il concludere accordi coi Paesi che alimentano tali flussi, aiutandoli preferibilmente con servizi e opere pubbliche, ma tutto questo richiede tempo e, comunque, non sarà affatto sufficiente, ci vuole, anzitutto, un atteggiamento non incentivante, cioè tale da suonare come dissuasivo fin nel profondo dell’Africa, creando come ha fatto la Danimarca posti in loco dove esaminare le richieste d’asilo e selezionare gli immigrati economici necessari, secondo numeri e specializzazioni programmati in anticipo; ma, comunque, non può mancare una politica di controllo dei canali terrestri e marini con quel minimo di capacità deterrente che sarà necessaria.
Resta la riscoperta e valorizzazione della nostra identità, quella stessa che viene celebrata in tutta Italia nella ricorrenza del settimo centenario del sommo poeta, cui, a prescindere d’altro, si deve un contributo fondamentale alla formazione della nostra lingua. Non si tratta di riconvertire nessuno a una fede, cui molti sono stati educati, perdendola strada facendo, ma di accettare consapevolmente l’eredità cristiana, che, con una straordinaria miopia l’Europa ha rifiutato di riconoscere, come se non fosse quella che è proprio in forza di quella eredità. La laicità in sé è un sacco vuoto, che se non è riempito di valori ricade su sé stesso, cosa vuol dire in una terra come la nostra che si vanta giustamente di essere custode di una maggioranza del patrimonio artistico mondiale, quando esso è in larga misura un tributo alla fede. Credo anch’io che si dovrebbero eliminare gli insegnanti di religione, senza far troppo conto del Concordato, fra l’altro riconducibile nel suo varo e nel suo aggiornamento ad un fascista e un parafascista, Mussolini e Craxi, purtroppo, se non accettato dal Vaticano, questo richiederebbe di cancellare l’art. 7 della Costituzione; ma allora, se così fosse, si dovrebbero cestinare anche gli insegnanti di storia dell’arte.