Mentre la giustizia italiana corre loro dietro, a Parigi il 12 luglio è stata concessa la cittadinanza onoraria e la medaglia Grand Vermeil, massima onorificenza del comune di Parigi, alle due Capitane della SeaWatch: Carola Rackete e Pia Klemp (già indagata per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina), a cui si aggiunge un versamento di 100 mila euro in favore di Sos Mediterranée.
La reazione piccata di Matteo Salvini, di Giorgia Meloni e di altre anime del centrodestra italiano nei confronti di questo riconoscimento alla Capitana Carola, “una perseguitata dalla giustizia italiana” (la quale, fra le altre cose, ha già espresso l’auspicio per il sequestro degli account social Facebook e Twitter del leader leghista in favore di una riapertura effettiva dei porti), chiaramente non si è fatta attendere, alimentando il polverone di polemiche intorno alla questione sbarchi, che appare come un problema irrisolvibile in maniera definitiva.
In questo duello a distanza, fra la Capitana eroina della sinistra e il blocco governo più centrodestra, la scelta dell’amministrazione parigina non può che effettivamente apparire come l’ennesima beffa ai danni dell’Italia sulla succitata questione migratoria.
Senza insistere troppo in dietrologie, dai respingimenti a Ventimiglia ad altri fatti analoghi come lo sconfinamento a Bardonecchia dei gendarmi francesi nel marzo 2018, emerge ora la dichiarazione della Rackete, rilasciata nell’interrogatorio alla Guardia di Finanza, che inchioderebbe Parigi in corrispondenza dei fatti della Seawatch 3.
Infatti, su quanto accaduto sul finire dei famigerati 15 giorni in mare a largo di Lampedusa, Carola rivela: “Avevamo contattato il porto di Marsiglia per sapere se potevamo attraccare. La richiesta è stata inoltrata al prefetto, fino al presidente della Repubblica. Ma nessuno ci ha risposto”. Da qui la decisione di forzare il blocco ed entrare senza autorizzazione nelle acque italiane.
C’è da chiedersi a questo punto quale sia realmente la posizione della Francia, paese fondatore dell’Unione europea come l’Italia, rispetto al problema epocale in questione.
L’atteggiamento moralista e insultante del presidente francese nei confronti del governo italiano, a sostegno del quale sinistra e destra dovrebbero sempre dimostrare compattezza al di là dei dissidi interni, accompagnato da un’assenza permanente nel momento del bisogno e aggravato dal premio riconosciuto alle giovani capitane della Seawatch, cuce al petto dei nostri cugini d’oltralpe una medaglia all’ipocrisia.
Spostandoci a Berlino, altra capitale da cui riceviamo le abituali lezioni di umanità, è da poco legge il Migration-paket voluto dal ministro Seehofer con cui anche i teutonici, ex campioni d’accoglienza, virano sulla linea dura contro l’immigrazione illegale, come già da tempo ha fatto anche l’Austria. Cosa c’è da aspettarsi ulteriormente a quanto già sappiamo accadere ai cosiddetti dublinanti? L’espulsione immediata dei profughi irregolari, l’ampliamento della detenzione preventiva per i rifugiati e il taglio del welfare agli stranieri, cui si aggiungono perquisizioni senza bisogno di mandato giudiziario.
Quando una parte della politica italiana invoca il fatidico “ci vuole più Europa” per risolvere il problema della gestione dei flussi migratori e del ricollocamento bisognerebbe sforzarsi di unire i punti, tenere conto di questi fatti, che non provengono dagli “opportunisti di Visegrad”, ma da chi tiene le redini del gioco europeo, dai protagonisti dell’integrazione comunitaria. Chiediamoci: c’è veramente la voglia di cooperare? Quale sarebbe lo scopo di ulteriore integrazione politica, se alla fine dei conti, siamo tutti, giustamente, oserei dire, un po’ sovranisti?
Ma non è tutto. Il gruppo della sinistra GUE ha proposto di invitare la Capitana Europa, come ribattezzata dal Der Spiegel, al Parlamento europeo per un’audizione in Commissione per le libertà civili (Libe).
Inutile sottolineare la contrarietà dei tanti eurodeputati italiani tra cui Martusciello (FI), Zanni (Lega) e altri, perciò la domanda da porci ritengo sia: come può non avere alcuna rilevanza per le istituzioni dell’Unione europea, sempre attente al rispetto dello stato di diritto, violare le leggi di uno stato membro nel nome di una questione ideologica cara alle potenti sinistre occidentali?
Tirando le somme, è evidente che non può essere l’Unione europea a farsi carico dei problemi dell’Africa a mo’ di Divina Provvidenza, come non può essere l’Italia da sola, la quale può solo tentare di contenere le partenze e gli sbarchi, al più sforzarsi di aumentare l’efficienza delle politiche di rimpatrio, ma la pressione c’è e continuerà ad esserci.
Ad avviso di chi scrive non sarà l’Ue, non sarà l’Italia, ma sarà l’Africa stessa a risolvere finalmente i suoi problemi: senza troppo clamore presso i media nostrani, il 7 luglio scorso 52 Paesi africani su 55 hanno siglato presso l’Unione Africana l’Accordo continentale africano di libero scambio (AfCFTA) per abolire dazi e barriere doganali fra i paesi firmatari.
Una decisione importantissima che indirizzerà l’Africa verso un cammino di sviluppo che era atteso da decenni, crescita che l’Africa solo da sé potrà creare, per chiudere con un passato di dipendenza dalle solite e pressoché inutili beneficenze, nonché per smontare le proposte purtroppo evergreen nel dibattito italiano (ed europeo) di ipotetici piani Marshall per l’Africa.