Pensavamo di averle viste tutte e invece ci sbagliavamo. Ci sbagliavamo di grosso, perché il fascistometro le supera tutte. Con questo pseudo-test ideato da Michela Murgia e da l’Espresso si può “misurare il grado di apprendimento raggiunto e i progressi fatti” nell’acquisizione dell’ideologia fascista. La procedura è semplice: vengono proposte sessantacinque “frasi, luoghi comuni e slogan” e, in base a ciò che viene spuntato dall’utente, il sistema calcola il livello di fascismo.
A parte la banalità di una tale iniziativa, come se il fascismo potesse essere ridotto ad un atteggiamento o ad un’attitudine, emerge un grave cortocircuito storico. Come si può misurare (la cosa fa già ridere…) il grado di fascismo proponendo degli slogan contemporanei che fanno parte del dibattito politico odierno? Come si può pensare che frasi del tipo “ci vorrebbe il presidenzialismo” o “questa è giustizia ad orologeria” possano definire una persona fascista?
Tra i sessantacinque slogan proposti alcuni, solo perché pronunciati da Salvini o da persone vicine al centrodestra, vengono automaticamente identificati con il regime. Basta osservare la scelta di certe espressioni per notare la natura totalmente politicizzata del test: “(gli immigrati) non rispettano le nostre tradizioni”, “non si fa nulla per le culle vuote” e “non sono profughi, ma migranti economici”. Dalla miglior tradizione postcomunista ritorna l’equazione centrodestra = fascismo.
Ancora una volta si nota l’uso strumentale del ventennio. Non una analisi seria di cosa fu il fenomeno fascista, ma un suo uso propagandistico a fini politico-editoriali. Insomma, tutto ciò che si oppone alle narrazioni della sinistra diventa fascismo. Anche questioni politiche delicate come l’immigrazione, la fuga di giovani neolaureati o il multiculturalismo, vengono brutalmente semplificate secondo una logica bipolare: o con noi de l’Espresso o contro di noi (fascismo). Se non si accetta ciò che propone il settimanale si diventa necessariamente fascisti. In questo meccanismo perverso il ventennio perde le sue peculiarità e la sua singolarità storica per diventare strumento di contesa politica e, ancor peggio, di delegittimazione. Proprio questa dinamica ne impedisce lo studio, l’apprendimento e quindi la comprensione. E così il passato non passa, perché non viene adeguatamente storicizzato ma banalmente strumentalizzato.