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Un Ferrara “travagliato”, solo perché Trump non appartiene al club dei nuovi foglianti

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Giuliano Ferrara è un pensatore dalla penna abile e dalla mente irrequieta, che si ama o si odia come capita a chiunque prenda una decisione netta e sia pronto a sfidare anche i mulini a vento sollevando questioni etiche fastidiose. Adora provocare e confondere e così, leggendo l’apertura del Foglio di martedì, per un attimo si poteva credere di essere di fronte ad una copia del Fatto quotidiano. Perché un titolo che suona “Non servono prove contro l’Impostore” può sembrare partorito dalla mania manettara di Marco Travaglio, uno che tende a ritenere colpevole chiunque sia indagato ancor prima di una sentenza di condanna. Invece c’è lo zampino di Ferrara che commenta l’esito dell’indagine condotta dal procuratore speciale Robert Mueller sulle interferenze russe nella campagna presidenziale di Donald Trump, l’Impostore. Indagine che non ha dimostrato alcuna collusione.

Quello di Ferrara è un giudizio per lo più politico e basta scorrere l’articolo per rendersene conto, ma che lascia l’amaro in bocca quando si incrociano affermazioni come “che cruccio, le prove” o “la pistola fumante non l’ha trovata nessuno, tutti sanno che il delitto c’è stato”. Il delitto è l’essere un amico di Vladimir Putin (“lo ama perdutamente”) e, mancando le prove, ci si affida alle supposizioni: gli incontri alla Trump Tower “con strani tipi e tipe”, il pallone per i Mondiali di calcio regalato durante una conferenza stampa, il fatto che in campagna elettorale Trump avesse detto di preferirlo a chiunque altro – a onor del vero commentò che era “un leader, molto più di quanto lo sia stato il nostro presidente”. E ancora le convergenze sulla Siria e sullo “strozzamento dell’Unione europea”: tutte supposizioni politiche, pienamente legittime e altrettanto contestabili, ma che soprattutto tradiscono la voglia frustrata di vedere l’Impostore dietro alle sbarre, pur in assenza di prove.

Il giornalismo d’inchiesta (?) con Silvio Berlusconi ha vissuto un’epoca d’oro: soffiate, retroscena, intercettazioni prima trascritte, poi addirittura on line nelle versioni originali. Pagine su pagine che poi contrastavano con la mancanza di prove per incolpare il Caimano, mentre Ferrara rispondeva colpo su colpo con editoriali, simposi e manifestazioni a baluardo del garantismo, tanto giudiziario quanto morale. E se la condanna per Berlusconi non veniva pronunciata, poco importava: i suoi inquisitori lo volevano ugualmente in galera, colpevole sulla base di un livoroso giudizio politico. A qualche anno di distanza, gli inquisitori sono rimasti gli stessi, qualcuno vive un momento di gloria nel vedere Alfonso Bonafede ministro della giustizia, si danno appuntamento pazienti sulla riva del fiume in attesa di un cadavere che passi. Non vorremmo pensare che a quella brutta gentaglia si sia aggregato anche un Ferrara travagliato solo perché Trump non appartiene al club dei nuovi foglianti.

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