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Finanza globale: non prendetevela con Ronnie e Maggie – Prima parte

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Il refrain è il solito, quello della langue de bois del Guardian, del New York Times e delle loro (brutte) copie nostrane: il “neoliberismo” di Margaret Thatcher e Ronald Reagan ha distrutto il mondo, la civile convivenza dei popoli, affamato il mondo e così via. Il tutto supportato da zero analisi fattuali, nessuna cifra, e nemmeno lo straccio di un’evidenza empirica. Con i progressisti funziona così. Solo che tutta questa vuota concione che colpevolizza due dei politici di maggior successo, e un’epoca della nostra recente storia – gli anni Ottanta – è fiato dato alle loro bocche.

Finanziarizzazione, liberismo sfrenato e outsourcing non sono magicamente apparsi al mondo nel biennio 1979-1980 ma sono stati fenomeni molto più profondi e di lunga gestazione di quanto le semplificazioni radical ci vogliono dare a intendere.

Già nel 1967 il sistema monetario internazionale subì uno shock con la svalutazione della sterlina decisa dal governo britannico guidato dal laburista Harold Wilson. L’anno successivo, un altro progressista, il democratico texano Lyndon Johnson annunciò che non si sarebbe ricandidato alle elezioni presidenziali dopo che in Vietnam gli Usa subirono perdite umane ed economiche come mai nella loro storia: le spese militari americane arrivarono a toccare il 10 per cento del Pil. Il Vietnam atterrò il bilancio Usa: il deficit, che nel 1965 fu pari a 1,5 miliardi di dollari, nel 1968 superò i 25 miliardi.

Questi due eventi determinarono una sorta di nuova “corsa all’oro” che spaventò le autorità monetarie Usa. Le banche centrali e le compagnie assicurative e finanziarie si affrettarono così a vendere le sterline che stavano rapidamente perdendo valore per acquistare il bene-rifugio per eccellenza. L’oro, per l’appunto. Allora il sistema finanziario internazionale era retto dagli Accordi di Bretton Woods del 1944 e si fondava sulla convertibilità del dollaro in oro secondo un tasso fisso di 35 dollari l’oncia. Questa regola serviva a dare stabilità e fiducia a tutti gli scambi di merci e denaro del mondo perché si fondava sull’esistenza di un “prestatore di ultima istanza” – la Federal Reserve. Il dollaro sostituì così la sterlina come valuta globale di riferimento, fornendo agli Usa quello che l’ex presidente francese, Valéry Giscard d’Estaing definì un “privilegio esorbitante”. E in effetti, il vantaggio era innegabile: i titoli del debito pubblico Usa potevano essere acquistati da tutti come bene-rifugio per eccellenza, permettendo alle autorità americane di accumulare deficit crescenti.

Alla fine degli anni Sessanta cambiò però tutto: nel 1967 gli Usa e la Germania Ovest firmarono un accordo, il c.d. Blessing Brief in base al quale i tedeschi si impegnarono a non chiedere mai più la conversione in oro dei dollari da essi posseduti. Questo, anche secondo autorevoli storici dell’economia come Diane Kunz, è il primo atto di rottura del sistema di Bretton Woods. Gli Usa erano attanagliati infatti da una paura: quella che tutti i correntisti si presentassero agli sportelli delle loro banche per chiedere oro in cambio di dollari. Questa paura traeva proprio origine dalla svalutazione della sterlina e da quello che si chiamava “eurodollaro”. Dopo la Seconda Guerra Mondiale l’impero americano sostituì quello britannico nella leadership mondiale. Allo stesso modo il dollaro diventò la moneta circolante più diffusa del mondo. Paradossalmente, furono proprio i banchieri inglesi a incoraggiarne l’impiego perché vi vedevano l’occasione per ripristinare il potere finanziario perduto, attirando e manovrando una nuova massa di denaro. I dollari non cambiati infatti, rimasero nei depositi come massa di manovra liquida non sottoposta a restrizioni di alcun genere, pronti a finanziare operazioni di prestito e a semplificare lo scambio di merci, accrescendo la crescita di volume del commercio mondiale. Il tasso di crescita medio di quest’ultimo infatti fu dello 0,9 per cento nel periodo 1913-50 e del 7,9 per cento tra il 1950 e il 1973.

Tutti approfittarono del nuovo mercato degli “eurodollari”: anche la stessa Unione Sovietica che ci vide una valida alternativa all’immobilizzo delle proprie risorse finanziarie negli Usa, potenzialmente sempre soggette a rischi di confisca e ricatti politici. Le banche Usa invece vi videro potenzialità di crescita e la possibilità di sfuggire alla Regulation Q che imponeva rigidi tetti ai tassi di interesse praticati. Grazie a questa libertà di movimento gli “eurodollari” si prestarono a operazioni a breve termine che approfittavano di tassi di interesse e livelli di redditività superiori a quelli ufficiali. La più comune di queste pratiche fu il carry trade, cioè la speculazione sui tassi di interesse che andò ad aumentare l’instabilità generale dei mercati.

Era la fine degli anni Sessanta. Margaret Thatcher ancora era una semplice deputata conservatrice all’opposizione del governo Wilson, mentre Ronald Reagan stava concludendo il suo primo mandato da Governatore della California.

SECONDA PARTE