La sterlina svalutata fu la presa d’atto di una trasformazione nei mercati mondiali e il punto di non ritorno per la Gran Bretagna come potenza imperiale. Ma anche gli Usa ebbero i loro problemi. Nel 1963 furono adottate misure per scoraggiare l’esportazione dei capitali. Misure che ebbero l’effetto opposto. Attratte dai tassi favorevoli degli eurodollari, le multinazionali furono spinte a tenere i loro capitali fuori dai confini nazionali. Per l’economia americana il risultato fu un crescente deficit nella bilancia dei pagamenti, finanziato dalle vendite delle riserve auree, che calarono da 24 a 11 miliardi tra il 1948 e il 1970.
Le politiche degli stati nazionali oscillarono quindi tra la liberalizzazione dei movimenti di capitale, che rispondeva alla necessità di attrarre denaro entro i propri confini, e la loro restrizione, al fine di limitarne il deflusso. Oggigiorno non è cambiato molto. La finanza ha vinto la sua battaglia pro-deregulation, gira il mondo alla ricerca di rendimenti speculativi a breve termine, ma ha perso la sua funzione essenziale di sostenere l’economia reale, e, questo suo libertinismo di capitali crea circuiti autoreferenziali, instabili e forieri di crisi improvvise e rovinose come quella del 2008. Lo riconobbe già nel 1968 l’American Bankers Association. Già allora la massa di dollari circolante nel mondo era stimata a un decimo di tutti i capitali liquidi detenuti negli Usa da Federal Reserve e banche private. A fronte di ciò i miliardi in oro rimasti nei depositi di Fort Knox rappresentavano una riserva insufficiente e calante.
Nel 1971, Richard Nixon dichiarò la fine del Gold Dollar Standard, la convertibilità dei dollari in oro. Il Blessing Brief divenne universale: gli Stati Uniti si erano così ritirati dal loro ruolo di garanti del sistema monetario internazionale. I tassi di cambio e le monete sarebbero oscillate sul mercato, dipendendo sempre meno dalla politica e dalle istituzioni. Gli stati si trovarono di fronte a quello che gli economisti chiamarono “trilemma”: da un lato cercarono di perseguire la propria autonomia manovrando tassi e quantità di denaro circolante; dall’altro dovettero tenere conto dei tassi di cambio delle monete e della libertà di movimento dei capitali. Queste tre cose insieme non si potevano tenere, per cui gli Usa abbandonarono Bretton Woods. Per Nixon una mossa quasi obbligata dato che nel 1970, per la prima volta dal 1894, al deficit nella bilancia dei pagamenti si aggiunse quello della bilancia commerciale. La svalutazione del dollaro fu accompagnata da misure protezionistiche che cercavano di ridurre le importazioni dall’estero.
Nella cosiddetta “età dell’oro”, il periodo che va dal 1945 al 1973, il valore mondiale delle esportazioni si moltiplicò per sette volte e quello del prodotto lordo per tre. Gli Usa videro scemare la loro quota sul mercato mondiale: dal 19 al 14 per cento sulle esportazioni, dal 27 al 22 per cento sul prodotto lordo. Alla radice di questo calo un paradosso: la quota americana calò grazie e soprattutto alla crescita della Germania Occidentale e del Giappone, due potenze che gli Usa avevano sostenuto e generosamente aiutato dopo la Seconda Guerra Mondiale. La leadership economica americana vacillò. Il segretario al Tesoro Usa, Henry Fowler dichiarò: “Il Mondo Libero è entrato a marcia indietro in un mercato di capitali in pieno sviluppo anziché farvi accesso in modo razionale e consapevole”. Il grande Henry Kissinger ad Harvard dichiarò: “La nostra politica estera è oltre la capacità fisica e psicologica del nostro Paese di assumersi la responsabilità di ogni parte del mondo”. Trump prima di Trump?