L’uscita di Kissinger, proprio di fronte a quegli studenti che occupavano le piazze del ’68 chiedendo la fine della guerra in Vietnam e un nuovo modello di società, marcò la fine di un’epoca nella politica estera americana.
A livello monetario, invece, gli strumenti per regolare il sistema a livello internazionale non mancarono: c’erano la Banca dei Regolamenti internazionali a Ginevra, attiva sin dal 1930; l’Organizzazione per lo Sviluppo e la Cooperazione Economica, costituita nel 1961. Ma erano strumenti impotenti. Gli Usa puntavano a riconquistare quote di mercato, spingendo le monete straniere ad apprezzarsi per rendere più care le esportazioni. Per evitare una svalutazione eccessiva del dollaro, che avrebbe compromesso le loro esportazioni, le banche centrali europee e quella giapponese furono costrette ad acquistare dollari: così, già nel 1973, il deficit di bilancio Usa fu riassorbito semplicemente trasferendolo agli alleati. In Germania Ovest per esempio, due terzi dei capitali che affluirono provenivano dalle multinazionali (in particolare quelle americane) al loro stesso interno, attraverso scambi tra le case madri e le filiali estere (intra-firm trade). Nel 1950 le filiali estere delle società americane erano 7.000. Nel 1966 passarono già a 23 mila.
Proprio nel 1973 un altro evento sconvolse l’economia mondiale: la guerra dello Yom Kippur in Medio Oriente, che determinò la quadruplicazione del prezzo del petrolio. L’effetto “petrodollari” sugli “eurodollari” fu imponente: la massa di capitale finanziario circolante si gonfiò ulteriormente. Tra quell’anno e il 1976, il decollo del prezzo del petrolio riversò infatti ogni anno dai paesi ricchi a quelli esportatori circa 70 miliardi di petrodollari, pari quasi alla metà del prodotto interno lordo dei paesi produttori. Solo in parte questi petrodollari furono utilizzati per finanziare investimenti e consumi. La maggior parte prese la stessa strada degli eurodollari, andando ad aumentare le riserve finanziarie statali, i depositi immobilizzati nelle banche straniere, e acquisti di titoli di stato e azioni.
La finanza entrò in un circolo vizioso. Gli stati competevano per attrarre i capitali, approvando misure legislative per agevolare le transazioni finanziarie. Il prestito interbancario sostituì quello alle famiglie e alle imprese. Il glut, la sovrabbondanza di denaro in giro per il mondo, crebbe in maniera esorbitante: i flussi finanziari, stimati all’1 per cento del prodotto lordo mondiale nel 1970, salirono all’8 per cento nel 2000. Negli Usa il valore totale della finanza che nel 1900 era pari al 101 per cento del Pil, passò al 194 per cento nel 1980. La stima dell’espansione del capitale mobile in rapporto al Pil dà l’esatta dimensione della separazione tra finanza ed economia reale. La prima diventò un fattore completamente autonomo senza più alcun rapporto con ricchezza e valori reali dell’economia.
Questo processo produsse quattro effetti: nelle economie dei paesi occidentali, la stagflazione (un mix di stagnazione economica e inflazione); nelle economie dei paesi in via di sviluppo la spirale verso l’alto delle richieste di prestiti per finanziare investimenti produttivi grazie ai bassi tassi d’interesse con il risultato che, quando nel 1979 il capo della Federal Reserve, Paul Volcker, portò i tassi dal 4 al 19 per cento, molti paesi non furono in grado di ripagare i prestiti contratti e andarono in default; il terzo effetto fu l’esplosione dei debito pubblico nei paesi ricchi grazie all’espansione della spesa pubblica; infine, la produzione di denaro, per così dire, facile, con l’ingresso dei fondi comuni di investimento nei Cda delle imprese. Questi fondi preferirono investimenti a breve termine rispetto a quelli a lungo termine negli stabilimenti produttivi e nell’innovazione tecnologica, poiché in grado di dare tutto e subito: alti rendimenti e nel giro di pochi mesi, non di anni. Nacque così il money manager capitalism, uno stadio del capitalismo retto dai gestori del denaro e non più dagli imprenditori. La conseguenza di questa nuova fase fu l’esplosione del meccanismo delle stock option, dei contratti repurchase (repo), e – con la rivoluzione tecnologica dei computer – dell’High Frequency Trading, scambi ad alta frequenza resi possibili grazie ai nuovi mezzi informatici.
Il crescente peso della finanza portò gli Usa alle dimissioni dal ruolo di garanti del sistema monetario internazionale. Lo shock petrolifero del 1973 arrestò l’espansione delle multinazionali con sede in America a vantaggio di quelle europee e giapponesi. Lo scenario di competizione nel blocco occidentale per attrarre sempre più capitali determinò una condizione di scarsità che ebbe ripercussioni anche sulle politiche interne degli stessi stati. E non solo occidentali. In Cina, Deng Xiaoping aprì ai capitali stranieri e liberalizzò i mercati rurali dopo i disastri della collettivizzazione forzata causati dal Grande Balzo in avanti degli anni ’50, e dalla Rivoluzione Culturale di metà anni Sessanta. Per contro, la prima necessità oggettiva che determinò le politiche di Margaret Thatcher e Ronald Reagan furono il contenimento della spesa pubblica, e, soprattutto, dell’inflazione, galoppante dal 1973. Vedere in questo contesto dalle mille sfaccettature una cospirazione neoliberista ordita dall’ala liberale del partito Tory e da quella più pro-market del partito Repubblicano è frutto di una realtà romanzata e ricamata a uso e consumo di lettori – ed elettori – purtroppo ignari di tutto ciò.
FINE