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Finita la campagna, ora inizia il duro lavoro per Boris Johnson: sfide e incognite del nuovo primo ministro

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Completare Brexit, ma anche la possibilità di elezioni anticipate per avere una “sua” maggioranza. Dopo la fiducia degli iscritti, caccia aperta a quella di colleghi ed elettori

Come previsto è Boris Johnson il nuovo leader dei Conservatori e quindi l’uomo indicato dagli iscritti al partito per sostituire Theresa May come primo ministro del Regno Unito. Ha ottenuto il 66 per cento dei consensi quando l’asticella che lo avrebbe pienamente legittimato era stata fissata al 60 per cento; ha doppiato il rivale Jeremy Hunt e scalpitava seduto in prima fila al Queen Elizabeth Centre di Londra mentre si celebravano i convenevoli prima di annunciare il vincitore della consultazione. Fissava il palco e controllava che sotto la giacca i fogli del suo discorso fossero a portata di mano per quando sarebbe giunto il momento di rivolgersi alla platea. Il momento è quindi arrivato: ringraziamenti vari, anche alla May, poi il contenuto. Ha ripreso un articolo pubblicato dal Financial Times che avvertiva come il prossimo primo ministro si sarebbe trovato di fronte a sfide spaventose che mai i suoi predecessori hanno dovuto affrontare. Ha risposto di non esserne preoccupato. Lo ha chiesto anche chi sedeva davanti a lui (“Do you feel daunted?”), senza però scalfire a sufficienza il clima di perplessità che ruota attorno alla situazione di limbo in cui si trova il paese. Allora ci ha pensato lui: la campagna elettorale è finita, ora inizia il duro lavoro.

Nelle prossime ore metterà in piedi il suo esecutivo e sono molte le caselle vuote dopo una serie di dimissioni da parte di ministri e segretari che andranno a rimpolpare le fila dei critici: non gli daranno tregua, specialmente di fronte all’ipotesi che il prossimo 31 ottobre il Regno Unito abbandonerà l’Unione europea senza un accordo. “Do or die” è stato finora il suo leit motiv sul grande tema bollente di Brexit: la scadenza va rispettata anche a costo di un no deal scenario che può avere ripercussioni pericolose per l’economia britannica, con lo spettro di una recessione paventato da molti. I tempi per trovare una soluzione alla questione che riguarda il confine tra Irlanda e Irlanda del Nord si stanno stringendo: Johnson da una parte non ha escluso di uscire senza un compromesso, ma dall’altra ha ribadito che ci sono le possibilità perché le due parti in causa raggiungano un patto di non belligeranza. La carta no deal però non può essere scartata come invece ha preferito fare la May: i Brexiteers per la prima volta a tre anni dal referendum sono in sella, hanno preso il comando delle operazioni e si giocano la reputazione. Dovessero farcela, riuscissero a non far slittare nuovamente la deadline, Johnson allora sarebbe destinato ad una larga vittoria sui rivali che annienterebbe i sogni di gloria del laburista Jeremy Corbyn e ridimensionerebbe notevolmente Nigel Farage.

Ma Johnson ha i numeri nell’attuale Parlamento per riuscire a chiudere la partita? È il primo grande interrogativo del suo mandato che si accompagna direttamente al secondo: è in grado di svolgere il ruolo di primo ministro? I numeri sono scarsi perché se è vero che può contare sull’appoggio dell’ala euroscettica del partito, che mediaticamente ruota attorno alla figura di Jacob Rees Mogg – sostenitore della prima ora – e che tante spine nel fianco ha riservato alla May, è altrettanto vero che i backbenchers filoeuropei o più moderati e possibilisti su Brexit non rimarranno tranquilli, appoggiandosi a figure come il dimissionario Cancelliere dello Scacchiere Phillip Hammond e a sostegni trasversali che riguardano tanto il Partito laburista quanto i Liberaldemocratici, che già ventiquattro ore prima dell’incoronazione di Johnson avevano scelto il loro nuovo segretario, Jo Swinson – prima donna a ricoprire la carica, ostinatamente determinata a fermare il divorzio da Bruxelles.

Dovrà tessere rapporti, provare a ricucire gli strappi e a creare un consenso attorno alla sua figura soprattutto all’interno di Westminster. La maggioranza attuale però è risicata, non può fare a meno dei voti degli unionisti nordirlandesi, che sul backstop non hanno fatto sconti al precedente esecutivo. Per risolvere l’impasse c’è certamente la via delle elezioni anticipate, che però farebbero slittare nuovamente Brexit e Johnson dovrà saper convincere i suoi tanti potenziali elettori che sono un passaggio obbligato, un rospo da ingoiare, ma comunque piccolo in confronto alla possibilità di avere le mani libere per completare il lungo processo di uscita dall’Ue e raggiungere gli obiettivi che si è prefissato durante la corsa alla leadership. Obiettivi che si riassumono in un passaggio del discorso pronunciato a caldo martedì: coniugare i nobili istinti ad avere e custodire la propria casa, a poter spendere i propri soldi, a prendersi cura della propria famiglia con gli altrettanti nobili istinti a condividere e garantire a tutti una vita serena e dignitosa per “dare energia” al paese, con uno sforzo economico che prevede paletti fiscali meno serrati, tagli alle tasse per i ceti medi, l’aumento degli agenti di polizia per contrastare l’ondata di criminalità che sta interessando soprattutto la capitale, agevolazioni per le famiglie alle prese con le spese scolastiche.

Sono le premesse e promesse che hanno convinto i 92.000 iscritti: ora gli occorrerà conquistare la fiducia e la legittimità di un popolo che non era abituato a tanto trambusto politico e ad estenuanti manovre partitiche che generano disaffezione e sfiducia. Al funambolico Boris, spesso dipinto come un privilegiato arruffone, arrivista ed egocentrico, ma con una solida formazione culturale alle spalle (studi classici, autore, giornalista) e otto anni da sindaco di Londra (un’utopia per i Tories), l’arduo compito di stupire i tanti detrattori.