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Focus sul prossimo target di Pechino: Taiwan sempre più minacciata dall’espansionismo cinese

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Se vi capita di andare a Pechino è consigliabile visitare gli hutong, vicoli della città vecchia sfuggiti al delirio urbanistico che il Partito comunista praticò negli anni successivi alla conquista del potere. Ben poco è sopravvissuto all’ansia di demolizione che ha in pratica stravolto la struttura della capitale cinese, ora formata da una serie concentrica di anelli in cui i grattacieli spadroneggiano indisturbati.

In questi vicoli, conservatisi più o meno intatti, è ancora possibile vedere la Pechino di una volta. Gli edifici sono spesso fatiscenti, ma in molti casi cooperative di giovani li hanno restaurati facendo risorgere le antiche attività artigianali, affiancandole con la vendita di souvenir per incrementare i guadagni.

Frequenti sono i reperti originali dell’epoca maoista che i turisti acquistano volentieri considerati i prezzi bassi. Ma altrettanto comuni sono le riproduzioni fedeli di oggetti un tempo d’uso quotidiano. Tra questi, oltre ai manifesti di propaganda, si trovano confezioni di fiammiferi in cui soldati e marinai inneggiano – in inglese – alla riconquista di Taiwan, l’isola diventata nel 1949 rifugio dei nazionalisti di Chiang Kai-shek dopo la loro sconfitta da parte dei comunisti di Mao.

Taiwan – o Formosa, come un tempo si diceva – è riuscita a mantenere l’indipendenza per tutti questi anni grazie allo scudo americano, anche se la realpolitik delle potenze occidentali ha poi condotto al suo isolamento diplomatico. L’isola “ribelle”, come tuttora viene definita nella Repubblica Popolare, ha dapprima perduto il suo seggio all’Onu a favore della Cina continentale, e poi ha dovuto chiudere gran parte delle sue rappresentanze diplomatiche all’estero diventando una sorta di “Paese fantasma”, che esiste ma non è riconosciuto ufficialmente negli organismi internazionali come, per esempio, l’Organizzazione Mondiale della Sanità.

Questo non ha impedito una crescita impetuosa della sua economia in larga parte basata sulle esportazioni. Per quanto ignorata sul piano diplomatico, Taiwan è insomma diventata una delle celebri “tigri asiatiche” il cui esempio più noto è la Corea del Sud. Naturalmente la sproporzione tra le due Cine è enorme: appena 23 milioni di abitanti a fronte del miliardo e 300 milioni della Repubblica Popolare. E la distanza geografica è minima, poiché soltanto 120 km di mare separano le due entità.

Nei decenni passati la Cina Popolare ha esercitato una forte pressione militare sull’isola senza mai nascondere il proposito di annetterla al proprio territorio metropolitano. Solo lo scudo fornito dagli Usa ha impedito che ciò avvenisse, e Taiwan è un Paese fortemente occidentalizzato. Tuttavia il governo di Pechino ha da tempo cambiato tattica. Senza rinunciare alla minaccia militare, ha invece puntato su collaborazione economica e accordi commerciali trovando nell’isola interlocutori interessati.

Con il declino dei vecchi eredi del Kuomintang, il partito nazionalista che condusse (perdendola) la guerra civile con i comunisti, l’ultimo presidente filocinese Ma Ying-jeou inaugurò una politica di stretti rapporti economici con gli ex nemici dicendosi pronto a sottoscrivere un trattato di collaborazione con la Repubblica Popolare. Senza però fare i conti con il movimento studentesco che non intende far diventare il Paese un satellite cinese; rischio piuttosto concreto considerando la strapotere economico e finanziario del colosso asiatico.

Ricorrendo allo slogan “impedire la svendita alla Cina”, i giovani occuparono il Parlamento di Taipei per nulla disposti ad accettare compromessi. Come nel caso di Hong Kong, la popolazione è restia all’integrazione più o meno mascherata, desiderando mantenere tutti gli organi della democrazia rappresentativa. Come sappiamo, la leader del Partito Democratico Progressista anti-cinese, la sessantunenne Tsai Ing-wen, ha in seguito ottenuto a Taiwan una vittoria davvero schiacciante, 60 per cento dei voti rispetto al 30 del suo avversario Ma Ying-jeou. L’uomo, per intenderci, che due anni orsono aveva incontrato a Singapore il presidente cinese Xi Jinping stringendogli calorosamente la mano. Senza dubbio quella stretta di mano gli è costata la disastrosa batosta elettorale, dimostrando che la stragrande maggioranza dei taiwanesi vuole mantenere le distanze dalla RPC. Naturalmente per quanto riguarda l’ex colonia britannica è tutto più difficile, vista la contiguità territoriale e la fine della presenza inglese. Ma Taiwan è in fondo separata e può contare su alleati esterni, anche se è difficile capire fino a che punto essi intendano esporsi per continuare a tutelarla.

Taiwan, pur essendo forte economicamente, dipende in modo totale, per quanto riguarda la sua sicurezza, dallo scudo americano. In tempi ormai lontani gli Usa consentirono (a malincuore) che il seggio permanente al Consiglio di Sicurezza dell’Onu venisse tolto a Taipei e attribuito a Pechino, chiarendo però che l’impegno americano a difendere l’isola in qualsiasi circostanza restava immutato. E così è stato, almeno finora. Si sono verificati scontri armati nel sottile stretto che divide i due Paesi, ma la RPC non ha mai superato la soglia critica limitandosi a proclamare con costanza la necessità della riunificazione.

Al di là della cronaca corrente è comunque opportuno porre una domanda di fondo: è proprio vero che l’isola fa parte della Cina a tutti gli effetti? A prima vista parrebbe di sì, ma la realtà è più complessa di quanto sembra. Già, perché la popolazione autoctona non è affatto cinese. Gli “aborigeni” di Taiwan, ancora presenti per quanto in numero ridotto, parlano una lingua del gruppo austronesiano, e ciò significa che sono imparentati con malesi, filippini e indonesiani. La grande colonizzazione cinese avvenne soltanto nel XVII secolo. Mette pure conto notare che la cultura e la lingua autoctone, represse per secoli, vengono ora rivalutate dal governo di Taipei proprio in funzione anti-cinese.

Il quadro è, insomma, piuttosto complicato. Pare ovvio pensare che i leader di Pechino non si fermeranno certo di fronte a considerazioni di questo tipo. Continueranno a coltivare il progetto della “Grande Cina” alla quale, a loro avviso, appartiene anche il Tibet. E neppure Hanoi dorme sonni tranquilli, giacché il Vietnam è stato per molto tempo la provincia meridionale dell’Impero.

Non si possono però ignorare gli ultimi – e clamorosi – sviluppi. La Repubblica Popolare Cinese ha infatti subito approfittato del caos istituzionale verificatosi negli Stati Uniti dopo le ultime elezioni presidenziali per rafforzare le proprie posizioni nell’area del Pacifico. E lo ha fatto con una mossa che riguarda in primo luogo gli scambi commerciali, ma destinata inevitabilmente a riverberarsi anche in ambito geopolitico.

Pechino è infatti il perno e la locomotiva di un importante accordo di libero scambio che unisce – oltre alla stessa Repubblica Popolare – ben 14 nazioni asiatiche, le quali hanno concordato di abbattere i dazi per favorire l’import-export tra loro eliminando molti degli ostacoli che ora frenano gli scambi commerciali. Il trattato si chiama Regional Comprehensive Economic Partnership (RCEP).

Di grande rilievo il fatto che il premier cinese, Li Keqiang, abbia a tale proposito esaltato, da un lato, il multilateralismo e, dall’altro, il libero mercato. Le sue parole impressionano perché sono state pronunciate dalla seconda carica di un Paese che continua a definirsi ufficialmente comunista, e che impone ancora il marxismo-leninismo come unica filosofia di Stato.

Si tratta del più grande accordo di libero scambio che sia mai stato firmato. Basti dire che coinvolge 2,2 miliardi di persone e circa un terzo del Pil mondiale. Copre, oltre al territorio cinese, l’intero Sud-Est asiatico e quasi tutto l’Oceano Pacifico. Verranno abbattuti i dazi rendendo le esportazioni verso la Cina e le importazioni dei suoi prodotti molto più facili e convenienti. La sorpresa, tuttavia, è ancor più grande se scorriamo la lista dei Paesi che hanno firmato, giacché parecchi di essi sono alleati “storici” degli Stati Uniti.

Non desta sensazione trovare tra i firmatari Cambogia, Laos e Myanmar, nazioni entrate ormai da tempo nell’orbita cinese grazie al fatto che Pechino ha destinato ad esse enormi investimenti economici e infrastrutturali, legandole di fatto al suo carro. E neppure sorprende trovarvi Paesi di scarso peso come Brunei o che, comunque, con il Dragone intrattenevano già relazioni cordiali, come Indonesia e Malesia.

Il dato rilevante, e gravido di conseguenze, è leggere che hanno aderito pure nazioni dichiaratamente filo-occidentali e che, un tempo, dell’anti-comunismo facevano la loro bandiera. Parliamo in primo luogo del Giappone, grande potenza regionale che, oltre a mantenere sul proprio territorio un forte contingente di truppe Usa, con la Cina ha rapporti tesi a causa delle dispute su alcuni arcipelaghi.

Forse ancora più eclatante è l’adesione della Corea del Sud, che si è sempre giovata dello scudo americano per parare le minacce provenienti dal Nord Corea dominato dalla dinastia Kim. Identica la situazione per altri alleati “di ferro” degli americani come Thailandia, Singapore e Filippine, anch’essi firmatari dell’accordo.

E che dire del Vietnam, che ha tra l’altro ospitato la videoconferenza in cui l’accordo è stato siglato? In questo caso non esistono grandi differenze ideologiche trattandosi in entrambi i casi di regimi comunisti a partito unico. Eppure sappiamo che anche il Vietnam ha, con la Cina, aspri contenziosi territoriali in corso. Tra cinesi e vietnamiti si sono susseguiti negli ultimi anni scontri navali anche violenti con numerose vittime. Hanoi, in sostanza, accusa Pechino di minare la sua integrità territoriale, ma ciò non ha affatto impedito agli eredi di Ho Chi Minh di firmare il trattato.

Dulcis in fundo, ci sono pure Australia e Nuova Zelanda, da sempre considerati “bastioni occidentali” nel Pacifico. Questi due Paesi, e soprattutto l’Australia, hanno ingaggiato con Pechino una dura battaglia riguardante la mancanza di democrazia e lo scarso – o meglio: inesistente – rispetto dei diritti umani da parte dei cinesi. In primo luogo a Hong Kong, ma anche nello Xinjiang popolato dagli uiguri musulmani e nel Tibet. Pure i due ex Dominion britannici, comunque, hanno aderito al trattato RCEP.

Un accordo di enorme portata, indubbiamente, che consente alla Repubblica Popolare di acquisire una posizione dominante in Estremo Oriente, con l’intento di rimpiazzare gli Usa ancora frenati dalla succitata crisi istituzionale susseguente alle ultime elezioni presidenziali. E l’adesione dei principali partner commerciali e militari asiatici degli Stati Uniti dovrebbe far suonare più di un campanello di allarme a Washington.

Ancora una volta, dunque, ha vinto il tipico mercantilismo cinese alla luce del tradizionale slogan business is business, e contenziosi territoriali, diritti umani e scontri armati passano in secondo piano. La Repubblica Popolare, grazie alla sua forza economica, riesce a legare al suo carro amici ed avversari.

Inutile dire che la presenza di Taiwan nell’accordo non c’è, com’era del resto prevedibile visto che la RPC considera l’isola di sua proprietà. La nuova amministrazione Usa dovrà ora affrontare una Cina apparentemente in crescita economica e decisa ad estendere ovunque i suoi tentacoli commerciali. Si attende di vedere se, dopo la firma dell’accordo, Pechino adotterà con i nuovi partner una politica meno aggressiva e più conciliante. È possibile che accada per non mettere subito in crisi l’importante accordo appena firmato, ma è pure chiaro che ora la piccola Taiwan corre pericoli ancor più seri di quelli affrontati in passato.

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