Alla fine degli anni ’90, l’esercito era onnipotente. Neutralizzati Erbakan e gli islamisti, arrestato il capo del PKK, Abdullah Öcalan, si fece strada una forma di secolarizzazione molto più aggressiva e più vicina a quelli che furono gli albori della Repubblica turca, con la soppressione dei partiti di ispirazione religiosa e curda, e un nuovo giro di vite su tutte le manifestazioni pubbliche di religiosità, specialmente nelle istituzioni.
Questo, unito alla drammatica crisi economica del 2001, portò a una forte e ampia opposizione allo status di supervisore dell’esercito nella politica turca. Intellettuali liberali favorevoli all’ingresso della Turchia nell’Unione Europea si coalizzarono con i movimenti conservatori islamisti nella richiesta di maggiori libertà. Proprio in quest’ultimo campo si verificò una spaccatura: l’ideologia islamista ortodossa di Erbakan fu sfidata da un nuovo corso di leader islamici riformatori, fautori di un progetto di democrazia conservatrice. I più in vista tra questi ultimi furono l’attuale presidente turco, Erdoğan, e l’ex presidente Abdullah Gül. L’ingresso nell’Unione Europea, il raggiungimento dei “Criteri di Copenhagen” e di uno stato realmente democratico, furono sbandierati in modo strategico alle élites intellettuali, economiche e finanziarie turche per indebolire un esercito che, con la sua repressione delle libertà civili, rendeva il sogno europeo una chimera.
Con la nascita del partito di Sviluppo e Giustizia (AKP) l’ortodossia islamista di Erbakan fu sconfitta a vantaggio di un movimento che, seppure aveva come stella polare una maggiore visibilità e “presa” della religione sulla società e sulla politica turca, metteva insieme liberali e conservatori, europeisti e rampanti businessmen anatolici, illustri commentatori dei maggiori quotidiani e figure di spicco del nazionalismo curdo. Una specie di grande casa per tutti gli scontenti della militarizzazione della Turchia.
Con l’avvento al governo dell’AKP dopo le elezioni del 2002, Erdoğan fu liberato dal carcere in cui si ritrovava per avere letto in pubblico un poema di contenuto religioso, e diventò premier. Il ruolo del Consiglio di Sicurezza Nazionale fu ridimensionato, con la sua subordinazione all’autorità politica civile. Il numero di civili al suo interno aumentò, mentre fu stabilito che spettava al governo la nomina del segretario. Fu emanato un nuovo Protocollo sulla Sicurezza, l’Ordine Pubblico e le Unità di Assistenza (EMASYA) in caso di intervento militare. Infine, il Parlamento fu autorizzato a delegare alla Corte dei Conti l’audit sulle spese delle Forze Armate.
Malgrado tutto ciò abbia fatto sperare in molti – anche in Occidente! – a una reale democratizzazione della Turchia una volta limitato il coinvolgimento dell’esercito in politica, ben presto questo wishful thinking svanì. Paradossalmente Erdoğan si trovò nelle stessa condizione dell’esercito dopo la cacciata di Erbakan, unico kingmaker della vita pubblica. Il suo abile populismo, la debolezza dell’opposizione kemalista-repubblicana, il ridimensionamento dell’esercito, e, in anni più recenti, le Primavere Arabe esplose ai margini dello stato turco, hanno determinato uno spostamento sempre più marcato dal pluralismo partitico alla dominazione di un partito prevalente, per giungere, dopo il golpe mancato del 2016 e i successivi arresti di centinaia di golpisti o presunti tali, a un autoritarismo sempre più marcato.
Eppure, golpe o non golpe, l’immagine dell’esercito ne è uscita fortemente sminuita, macchiata forse per sempre. Anche se da esperto navigatore dell’arena politica Erdoğan ha formalmente mantenuto quei privilegi che il cittadino medio turco associava all’élite militare. Il controllo della Corte dei Conti sulle spese dei militari, è rimasto, fondamentalmente, lettera morta. L’Oyak e la Fondazione delle Forze Armate ne sono tuttora esenti. Le Forze dell’Aviazione Turca, al netto delle purghe, sono ancora l’istituzione pubblica che vanta il maggior numero di stipendiati dallo stato, mentre la riforma della coscrizione obbligatoria – più volte menzionata dal presidente turco nei suoi comizi – non si è mai realizzata. Il ruolo della Corte Amministrativa Militare e di quella di Appello Militare è stato indebolito a vantaggio dei civili coinvolti in controversie con i militari, ma, alla fine, restano le ultime istanze di giudizio per i membri dell’esercito. Anche la nuova Costituzione presidenzialista non ha modificato quegli articoli della legge fondamentale sulla secolarizzazione e la laicità dello stato.
Difficile dire se in un futuro prossimo le cose cambieranno. Certamente, se Erdoğan è partito da una grave crisi economica per consolidare il suo potere, l’attuale momento potrebbe indebolire una posizione che sembra inattaccabile anche dopo la conferma del suo mandato alle recenti presidenziali. La storia della Turchia però ci insegna che laicità e sentimento religioso, secolarizzazione e islam politico sono fenomeni immanenti destinati a confliggere, cooperare ed emergere nella sintesi di uno stato che, rimane, nonostante tutto, imperscrutabile.