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Il futuro dell’esercito nella Turchia di Erdogan – Prima parte

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Il colpo di stato del luglio 2016 ha segnato uno spartiacque decisivo nella lunga e tortuosa storia dell’esercito turco. Aldilà delle differenze politiche e ideologiche – pezzi variegati del mosaico di una nazione sempre più indecifrabile – le scene a cui tutto il mondo ha assistito hanno lasciato sbigottiti quanti conoscono la recente storia di uno stato, in cui i militari hanno più volte giocato un ruolo politico di assoluta rilevanza, addirittura sovraordinato rispetto a quello dei partiti. Spogliati, assaltati da un popolo che mai in passato si sarebbe sognato un simile affronto, ammanettati ed esposti al pubblico ludibrio, i militari che hanno sostenuto il maldestro tentativo di golpe dell’ex capo dell’aviazione Akın Öztürk, sono giunti al redde rationem con il presidente turco Erdoğan, il cui progetto di smilitarizzazione dello stato sembra essersi completato anche in assenza di alcun reale sviluppo democratico.

Per la verità, nel corso degli anni il prestigio e il potere politico dell’esercito ha subito una graduale erosione, a tutto vantaggio delle componenti più filo-islamiche della società turca e di quel derin devlet, il deep state – di cui l’esercito era una delle componenti più potenti – tipico dei regimi autoritari, in cui le politiche di securitarizzazione prevalgono sullo sviluppo della società civile. Dopo i colpi di stato del 1960, 1971, 1980 e 1997 l’esercito – custode della secolarizzazione dello stato – accrebbe il suo potere non solo di indirizzo politico, ma anche il suo status privilegiato a livello economico nella società turca. Dopo il golpe che si concluse con l’impiccagione di Andan Menderes, il leader del Partito democratico filo-islamista – ma anche l’uomo che perseguì un rapporto ancora più stretto tra Turchia e Occidente e fautore l’ingresso di Ankara nella Nato – l’esercito impose una nuova Costituzione nel 1961, prevedendo un sistema di checks and balances, la benthamiana distinzione delle funzioni dello stato sul modello occidentale (potere
legislativo, esecutivo e giudiziario), la nascita dei sindacati e maggiore autonomia per stampa e università. Il processo democratico però, fu subito contraddetto dalla creazione di un Consiglio di Sicurezza Nazionale, che, seppur designato come un organo consultivo, agì de facto come un governo ombra, influenzando e indirizzando in senso laicista e militarista le politiche del governo e le azioni della Grande Assemblea Nazionale.

In particolare, l’adesione della Turchia all’economia di mercato fu decisiva nello spostare verso Occidente il baricentro di una nazione che per oltre il 90 per cento del suo territorio si trova in Asia, in un contesto internazionale polarizzato dalla Guerra Fredda. Così il Fondo per l’Assistenza e la Pensione delle Forze Armate (OYAK) si sviluppò al di fuori della mutua assistenza statalizzata come organismo privato autonomo, ma con lo stesso trattamento esentasse su beni, redditi e proprietà tipici delle proprietà governative, diventando ben presto qualcosa di più di un semplice fondo pensione privato. L’OYAK agiva sul mercato come un vero e proprio player – e per il suo “peso” godeva anche di uno status privilegiato anche nei confronti degli operatori che avevano a che fare con lui – e all’interno di una cornice di protezione legale e statale che non era garantita ai suoi competitor.

Nel 1980 l’esercito dovette intervenire nuovamente di fronte alle tensioni crescenti tra i movimenti di destra e di sinistra. Questa volta, con la Costituzione del 1982, i partiti furono aboliti, l’autonomia delle università pure, e furono soppresse tutte le organizzazioni della società civile. L’esercito diventò l’unico attore in grado di determinare la politica turca attraverso il Consiglio di Sicurezza Nazionale. La nazione turca e le sue fondamenta – laiklik e turkluk, laicità e identità turca – si coagularono attorno ad esso nella lotta contro i due nuovi elementi che mettevano a rischio l’unità nazionale: il secessionismo curdo portato avanti attraverso la lotta armata dal Partito dei lavoratori curdi (PKK), e la crescita dell’islam politico rappresentata dal nuovo partito del Benessere (Refah Partisi) di Necmettin Erbakan, che sfidava apertamente il carattere secolare della Repubblica. Per questo le Forze dell’Aviazione Turca emanarono un codice che stabiliva il loro impegno a intervenire ogniqualvolta il principio di unità nazionale fosse in pericolo.

Vale la pena rimarcare come, anche andando contro la vulgata di pensiero attualmente dominante in Occidente, il sentimento religioso nei Paesi musulmani si sia rafforzato, e non indebolito, in presenza di regimi autoritari che hanno represso ordini, confraternite e associazioni musulmane, come nel caso dei Fratelli Musulmani in Egitto, o, tanto per restare in tempi più recenti, le opposizioni islamiste al regime sanguinario di Bashar Al-Asad in Siria.

Difatti, benché la vita politica turca gravitasse attorno alle linee guide stabilite dall’esercito e dal Consiglio, si arrivò al 1996 e al governo di coalizione tra il partito di Erbakan e il suo alleato centrista, il Partito della Vera Via. Il 28 febbraio 1997, le Forze Armate agirono con quello che fu definito un “golpe post-moderno”, senza carroarmati e senza spargimento di sangue. Erbakan si dimise e il suo partito fu messo al bando, senza che l’intero sistema politico fosse sospeso.
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