Mario Draghi ha mostrato grande incertezza nell’inquadrare la caduta di Kabul. Il 3 luglio non ha accolto gli ultimi voli da Herat con il generale e la bandiera della Folgore. Il 17 agosto ha collocato l’Afghanistan nel “mondo arabo”. Poi, rivolgendosi alle famiglie dei 52 militari caduti, ha detto: “il loro sacrificio non è stato vano”.
Queste ultime sue parole non hanno alcun senso, se non quello di ricalcare la posizione ufficiale della Nato, espressa dal segretario generale Stoltenberg così: “negli ultimi vent’anni abbiamo potuto evitare che l’Afghanistan diventasse un porto sicuro del terrorismo internazionale”. Un indizio che va unito a quell’altro, la sua prudenza estrema ad esprimersi in tema di esercito europeo, che abbiamo visto su Atlantico.
Insomma, la prima impressione è stata quella di un primo ministro a disagio.
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Essa va confrontata con il frenetico attivismo afghano, da quel giorno mostrato dallo stesso Draghi. Apparentemente, egli avrebbe tre obiettivi.
(I) Completare le evacuazioni dall’Afghanistan – Si tratta, anzitutto, degli occidentali rimasti indietro; quanti non si sa (invero, non si sa nemmeno quanti cittadini americani siano rimasti indietro, come discusso da Punzi su Atlantico). Si tratta, poi, dei collaboratori, cioè gli afghani più direttamente impiegati alle dipendenze dei già contingenti militari di occupazione.
L’evacuazione diretta si è conclusa il 31 agosto e pare i Carabinieri si siano comportati molto bene. I 5000 collaboratori italiani salvati hanno ricevuto lo status di rifugiato e verranno ricollocati in Italia. Ma resta il problema di quelli fra loro che non sono stati salvati: particolarmente per l’Italia, che operava ad Herat, molto distante da Kabul.
Biden ha rifiutato di rinviare la fine dell’evacuazione, plausibilmente per non restare ulteriormente ostaggio dei vincitori ed avere le mani libere per dedicarsi ad impedire una stabilizzazione di quel Paese a proprio danno. Con grande scorno degli europei i quali, evidentemente, coltivano diverse intenzioni.
Particolarmente attiva la Francia, la quale ha proposto una safe zone all’aeroporto di Kabul, gestita da Onu, Turchia e Qatar. Turchia e Qatar aiuterebbero l’evacuazione di quanti ancora devono scappare dall’Afghanistan, in cambio chiedendo al G7 di non infliggere bombardamenti o sanzioni ai Talebani. Il giorno dopo, Turchia e Qatar hanno partecipato ad una riunione coi ministri degli esteri del G7, convocata dagli Usa. La safe zone è stata respinta da Pechino. Tutto ciò che ha concesso, è il generico invito della risoluzione Onu a che i Talebani lascino uscire dal Paese chiunque lo voglia. La Cina è oggi definita dai Talebani come “il nostro partner principale” e, evidentemente, non ha voluto assegnare un vantaggio ai propri concorrenti nel controllo del nuovo Afghanistan.
Parigi ha rilanciato, con la proposta di un ponte aereo affidato al Qatar, oppure di “un posto congiunto a Kabul per portare più persone al sicuro”. Ma, ora, dovrà arrangiarsi pure con i Talebani i quali, in cambio, potrebbero non contentarsi di ospitare un eventuale ufficio consolare Ue, bensì pretendere quel riconoscimento ufficiale che nessuno è disposto a dare.
Quanto a Draghi, sin dal 24 agosto aveva avvertito Salvini che “il governo si batterà per i corridoi umanitari: rappresentano una priorità e l’Italia dovrà parlare con una voce sola”. Salvo poi accorgersi che “non possiamo fare corridoi umanitari dall’Afghanistan perché dovremmo dare le liste delle persone ai Talebani” (Di Maio) e “se vogliamo costruire corridoi umanitari, c’è bisogno del consenso del nuovo governo di Kabul, noi in Afghanistan non ci siamo più” (Sassoli).
(II) Una politica Ue per i rifugiati – Quanto alla Ue, tutti i Paesi membri sono d’accordo a che quelli fra loro che avevano contingenti in Afghanistan si gestiscano da sé i propri collaboratori. Ma sono in totale disaccordo riguardo alla eventualità di accogliere altre categorie di afghani. La parola chiave è ricollocamento: il ricollocamento, in altri Paesi membri della Ue, degli afghani in fuga, che giungeranno in Sicilia o in Puglia.
Parigi e Roma (con l’appoggio del Lussemburgo e di pochi altri) battono il tasto dei diritti umani (i diritti delle donne ad esempio, i quali, per taluni, avrebbero giustificato una continuazione di quella occupazione militare che persino Niall Ferguson definisce oggi “missione coloniale”). Draghi stesso, il 17 agosto al Tg1, si era mostrato baldanzoso: “l’Europa sarà all’altezza? sì, lo sarà”, con specifico riferimento a l’accoglienza, non solo dei collaboratori, ma pure “di tutti coloro che si sono esposti in questi anni per la difesa delle libertà fondamentali, dei diritti civili, dei diritti delle donne”. Consentendo così ai corifei (Sassoli, Bonino, Buccini, Minniti) di spiegare che qualunque afghano in fuga (e non solo i collaboratori) ipso facto “ha fatto affidamento sull’Occidente” e, quindi, deve essere accolto in qualità di profugo. In numero potenzialmente molto ma molto grande, ancorché indefinibile. Esso dipenderà da se i Talebani daranno séguito alle proprie promesse di oggi: riguardo alla stabilizzazione (spiegano che “grazie al ritiro degli americani” il problema della sicurezza è risolto) ed alla politica di impiego (aggiungono che le donne possono essere “bravissime e valide infermiere … lavorare nei ministeri, nel corpo della polizia o, ad esempio, nella magistratura come assistenti … brillanti studentesse”). Vedremo.
L’intenzione ultima di Parigi e Roma non può che essere la solita: la riforma del Regolamento di Dublino (cioè del principio del Paese di primo approdo, in base al quale tutti gli afghani in fuga che giungeranno in Italia, in Italia resteranno); magari annunciando il numero di afghani che è ogni Stato membro sarebbe disposto ad accogliere, magari attraverso una mai applicata direttiva sulla protezione temporanea.
Purtroppissimo, la Germania si oppone e si è tirata dietro il solito codazzo di satelliti (questa volta all’unisono sia quelli dell’ovest che quelli dell’est) e relativi commissari. Dimostrazione lampante della sempre preponderante forza tedesca, pur sotto elezioni e cambio di cancelliere. Come alternativa, i Paesi di confine (Grecia, Lituania, Polonia) erigono nuovi muri ai confini, ad imitazione di ciò che fece Orban nel 2015. Mentre Berlino sta già organizzando accordi simili a quello a suo tempo stipulato per i profughi siriani con la Turchia: stavolta con Tagikistan, Uzbekistan, Pakistan, Kirgisistan e, perché no, Iran. L’altra volta la Ue aveva ratificato e rifinanziato, non si vede perché non dovrebbe farlo anche stavolta. Sì, c’è un impegno a discutere ancora della proposta franco-italiana … magari altri due secoli.
Tale opposizione tedesca è parsa a Mattarella, in allocuzione il 29 agosto a Ventotene, “sconcertante” e “singolare”. Sconcertante, in quanto egli è convinto che le migrazioni siano inarrestabili e che vada accolto chiunque fugga, non solo a causa di persecuzioni ma pure di fame o dei cosiddetti mutamenti climatici. Singolare, in quanto (secondo lui) in contrasto con la creazione del NextGenerationEU e del SURE, strumenti (sempre secondo lui) “non una tantum … strumenti che resteranno” e (sabato ha aggiunto) troveranno collocazione in un nuovo Trattato “che dovrà sostituire quello di Lisbona”. E a non crederci sono solo i “gelidi antipatizzanti” (apparentemente preferendo egli i calorosi illusi), colpevoli di non comprendere “l’affermazione di Jean Monnet che diceva che l’Europa si farà nelle crisi”.
Purtroppissimo la Ue, non solo non gli dà retta, ma persino rinnega certe promesse fatte a Draghi appena lo scorso giugno. Quest’ultimo si era vantato di aver ottenuto “un coinvolgimento significativo, massiccio dell’Ue” in Nord Africa e aveva pure fatto il bullo: “la migrazione resterà sull’agenda del Consiglio europeo, qualunque sia la proposta di oggi … perché ci saranno eventi di rilievo che necessiteranno la discussione in Consiglio europeo; quindi, non mi farei troppi problemi”. Il ministro Lamorgese (secondo Draghi “lavora molto bene”) ha invocato il rispetto delle promesse ricevute (“l’emergenza nuova non scaccia l’emergenza vecchia”) ed è tornata col solito pugno di mosche in mano.
(III) Il G20 straordinario – Draghi desidererebbe tantissimo organizzare, in presenza a Roma, un G20 straordinario dei capi di Stato e di governo sulla crisi afghana. Straordinario, in quanto il G20 regolare ha una agenda economica e non si capisce se egli voglia anticiparlo in toto, inserendo in agenda l’Afghanistan, ovvero convocare una diversa ed apposita riunione. Forse Draghi si accontenterebbe di una videoconferenza dedicata. Ma per dirsi cosa?
Per tutto agosto, i giornali hanno potuto andare a ruota libera: chi dava per certa la convocazione a metà settembre, chi fantasticava che “la partita afghana e il coinvolgimento di Turchia e Russia potrebbe essere l’occasione per liberare Tripoli e dintorni dalle truppe di Ankara e Mosca”, chi sognava di giocare fra Usa e Cina. Fra i corifei intenti a lodarlo, spiccano Mario Giro (“un successo potrebbe aumentare la nostra influenza, segnando un nuovo inizio nella regione dell’Asia centrale”), Claudia Fusani (“Mario Draghi tesse la sua tela di king maker della politica internazionale … conferisce all’Italia un inedito e, fino adesso, mai raggiunto protagonismo globale”), Ugo Magri (“conosce la geopolitica”).
La natura auto-promozionale del tentato vertice è resa evidente dal contenuto principale proposto: “impegnarci al massimo in direzione umanitaria”. Con Di Maio che si porta appresso l’alto commissario per i rifugiati, Filippo Grandi, a predicare di centinaia di migliaia di afghani in fuga verso l’Europa.
Purtroppissimo, Washington non vede vantaggio, né ad organizzare un esodo di massa da Kabul, né a mettere chiunque fra sé e i cinesi. Venerdì, il ministro della difesa Lorenzo Guerini in visita al segretario alla Difesa americana Lloyd Austin, ha scandito “io credo che il G20 possa essere uno strumento utile” … io, non Austin.
Il povero Mario sembrava aver fatto un passo avanti incontrando il ministro degli esteri russo Lavrov. Ma Mosca aveva subito preteso la presenza di tutti gli Stati confinanti con l’Afghanistan: Iran incluso, il che ha ulteriormente irrigidito Washington. All’Onu ha rincarato la dose: non solo vuole che Usa e FMI rilascino a Kabul tutti i fondi oggi bloccati, ma pure ribadisce di volere la presenza dell’Iran. Peggio ancora per Draghi, la sede non sarebbe il G20, bensì una conferenza internazionale (persino La Stampa riconosce che essa “sancirebbe la fine dell’iniziativa italiana per convocare un G20 straordinario a settembre”). Somma ingiuria, la conferenza sarebbe formata da Russia, Stati Uniti, Cina e Pakistan soltanto. Chiosa il governo talebano: “la Russia continua a mediare per noi e con noi”.
Pechino, sin qui, non si è nemmeno degnata di rispondere al telefono: a Draghi che lo cerca almeno da metà agosto, Xi Jinping risponderà solo oggi, 7 settembre. Il primo ha già dimostrato di non avere leve di pressione nei confronti del secondo: testimone il secco No da quest’ultimo fatto pronunciare al G20 dei ministri dell’energia e dell’ambiente, a Napoli il 23 luglio.
Non a caso, Draghi ha lasciato trapelare le proprie difficoltà, attraverso il ministro Di Maio (“non c’è una posizione unanime sulla convocazione del G20 straordinario sull’Afghanistan”) ed alcuni quotidiani (“G20 in ottobre”). Egli stesso, giovedì in conferenza stampa, ha omesso il decisivo aggettivo straordinario mentre sospirava: “per quanto riguarda il G20, io continuo a pensare che si farà”. Traduzione: il G20 dei capi di Stato e di governo si farà, certo, ovvio che si farà, ma quello regolare, ad ottobre e con una regolare agenda economica. Vedremo oggi se sarà riuscito a guadagnarsi almeno un contentino.
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Insomma, il frenetico attivismo afghano mostrato da Draghi potrebbe portare a ben poco. Ciò che avrebbe suggerito pure la prima impressione, che abbiamo descritto: quella di un primo ministro a disagio.