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Giovannino Guareschi: un omaggio commosso ad un goliardico frondista

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Esattamente cinquant’anni fa, moriva Giovannino Guareschi. In quel 1968 che, con una certa velocità, stava fagocitando il “mondo piccolo” che era stato protagonista delle sue nostalgie e dei suoi racconti.

Inquadrarlo dentro un contenitore, un’etichetta, è praticamente impossibile. Guareschi (giornalista, caricaturista e umorista) ben si cala, infatti, nei panni del frondista, dell’oppositore tenace a qualsiasi forma di potere, politico o intellettuale che sia. Del goliardico osservatore colui che racconta l’Italia dei primi decenni del secondo dopoguerra (con ironia graffiante e il sorriso sulle labbra) e ne ritrae i personaggi che si muovono al suo interno.

Uno dei tratti fondamentali del carattere di Guareschi non è solo l’ironia, ma soprattutto l’autoironia (che è requisito fondamentale per fare della buona satira e del buon umorismo).

Innanzitutto egli ha sempre amato scherzare sul fatto che un uomo della sua stazza, robusta ed imponente, fosse stato battezzato con il nome di “Giovannino”. Ma all’autoironia non è mai sfuggito neanche il suo aspetto fisico: ha sempre giocato sui suoi baffoni scuri che lo rendevano un gemello oscuro/alter ego di Iosif Stalin. Lui tenace avversario del Partito Comunista Italiano, a causa di questa somiglianza, inizialmente prende in considerazione l’idea di interpretare lui stesso il sindaco comunista di Brescello, Giuseppe Bottazzi, detto Peppone (anch’egli ritratto basandosi sulle fattezze di Stalin), i cui panni verranno, invece, vestiti da un caratterista altrettanto capace come Gino Cervi. Durante un’intervista, l’intervistatore scherzosamente gli dice “Senti, ma lo sai che assomigli sempre più a Stalin?” e Guareschi, con prontezza, risponde “è lui che non assomiglia più a me, alla salute!” alzando il suo bicchiere di buon vino rosso, prodotto direttamente nella sua tenuta di campagna.

Umorismo, ironia, autoironia, battuta sempre pronta. Queste sono le caratteristiche di chi è destinato ad essere consacrato all’arte della satira. L’arte di chi guarda la realtà che lo circonda attraverso una lente che ne mette in evidenza le caratteristiche più grottesche e le esaspera fino a renderle divertenti. L’avventura di Guareschi con quest’arte comincia nel 1936, con la fondazione del Bertoldo, ma raggiunge il suo apice e le sue vette più alte con il Candido, fondato nel 1945.

Attraverso queste riviste egli ha modo di mettere in gioco tutto il suo estro e la sua creatività, ma soprattutto il suo spirito da goliardico frondista e da allegro bastiancontrario.

L’Italia del Ventennio impone di disegnare figure femminili belle, eleganti e sensuali? Guareschi sul Bertoldo inizia a disegnare le sue vedovone brutte, grasse e per nulla attraenti. Durante il referendum istituzionale del 1946 la maggior parte del mondo politico ed intellettuale antifascista è compattamente schierato a favore della soluzione repubblicana (il leader del Partito Socialista Italiano, Pietro Nenni, lancia una sorta di monito: “o la Repubblica o il caos”)? Guareschi sulle pagine del Candido sostiene apertamente la monarchia (proprio per questo attaccamento a casa Savoia, Umberto II dall’esilio gli conferì l’onorificenza di Grand’Ufficiale della Corona d’Italia). Durante le prime elezioni dell’Italia repubblicana, dell’aprile del 1948, la maggior parte dell’intellighenzia italiana è schierata a favore del
Fronte Democratico Popolare (coalizione composta da Partito Comunista e Partito Socialista)? Guareschi lo avversa, ribattezzandolo Fronte Pecorale Democratico e si mobilita attivamente a favore della Democrazia Cristiana, disegnando egli stesso alcuni manifesti elettorali e coniando alcuni dei più famosi slogan che caratterizzarono quella campagna elettorale. Suo, ad esempio, è lo slogan che recita “Nel segreto della cabina elettorale Dio ti vede, Stalin no”. Suo è anche il manifesto con lo scheletro di un soldato dietro i reticolati sovietici con la scritta “100.000 prigionieri italiani non sono tornati dalla Russia. Mamma, votagli contro anche per me”.

La satira di Guareschi è pungente, portata avanti con quell’irruenza un po’ campagnola, tipica del mondo contadino che egli ama e rimpiange. I suoi bersagli spesso si risentono delle sue critiche e in breve tempo si trasformano in avversari, quando non in nemici.

Tra questi vi sono sicuramente le sinistre. Primi tra tutti i militanti comunisti. Guareschi sulle pagine del Candido, in una serie di vignette intitolata Obbedienza cieca, pronta e assoluta, li trasforma nei trinariciuti. Essi, infatti, sarebbero dotati di una terza narice che “serve di scarico in modo da tener sgombro il cervello dalla materia grigia e permette nello stesso tempo l’accesso al cervello delle direttive di partito”. Nelle vignette, i trinariciuti prendono alla lettera tutte le direttive che vengono pubblicate su l’Unità, anche gli errori di stampa, che poi vengono corretti con la formula, oramai diventata proverbiale, “Contrordine compagni!”

Ma gli avversari non gli mancano nemmeno nelle file della sinistra democratica, dal momento che Guareschi sarà sempre tenace oppositore del centrosinistra organico.

Infine vi è il potere. L’avversario più pericoloso di un frondista come Guareschi. Il regime fascista, la Repubblica di Salò, l’Italia democratica e repubblicana. Ogni istituzione diventa bersaglio della sua satira e delle sue critiche. Questo modo di fare lo mette in una situazione di prigioniero politico permanente. Lo scrive nel 1954: “Per rimanere liberi bisogna, a un bel momento, prendere senza esitare la via della prigione.”

La prima volta Guareschi viene deportato nei lagher tedeschi, dopo essersi rifiutato di prestare giuramento a Salò. Qui scrive, anche per i suoi compagni di cella, La favola di Natale, la tenera e commovente storia di un bambino di nome Albertino che insieme a sua nonna, al suo cane e ad una lucciola intraprende un lungo viaggio verso il campo di concentramento dove è detenuto suo padre. La storia, che Guareschi musica e illustra una volta tornato in Italia, è un piccolo gioiello intimista, dove viene già tratteggiato quel mondo piccolo caratterizzato dalla semplicità e dalla solidarietà reciproca.

La seconda volta risale, invece, al 1954. Guareschi ha riportato sul Candido due lettere firmate da Alcide De Gasperi. In una di queste, fatta risalire al 1944, lo statista trentino inviterebbe gli alleati, di stanza a Salerno, ad effettuare alcuni bombardamenti su obbiettivi militari posti alla periferia di Roma, in modo da sobillare una rivolta della cittadinanza contro le forze nazifasciste. Il 15 aprile dello stesso anno inizia il processo contro di lui, alla fine viene condannato per diffamazione. Non può avvalersi neanche della condizionale, in quanto già condannato a otto mesi per vilipendio a mezzo stampa contro il presidente della Repubblica Luigi Einaudi. Carletto Manzoni, condirettore del settimanale, disegnò una vignetta che ritraeva il capo dello Stato tra due file di bottiglie di vino Nebbiolo dei poderi Einaudi, schierate in guisa dei corazzieri del Quirinale, con un omino sullo sfondo dotato di bastone da
passeggio che passa in rassegna le due schiere. Questo perché Einaudi nelle bottiglie di vino che produce, permette che venga messa in evidenza, sull’etichetta, la sua carica pubblica. In tutto sono 409 giorni di detenzione.

I racconti del mondo piccolo di Don Camillo e Peppone ci fanno ben capire dove sono orientate le nostalgie di Guareschi. Esse guardano a quella piccola realtà rurale e cattolica, sopravvissuta fino al secondo dopoguerra, mossa da valori non negoziabili come la solidarietà e l’umanità. Una piccola realtà dove anche il parroco del paese e il sindaco comunista, acerrimi nemici della vita di tutti i giorni, mettono da parte i propri risentimenti e decidono di cooperare quando è in gioco il bene della comunità. Una piccola realtà messa in crisi dall’avvento della modernità.

Questa critica accomuna Guareschi ad un altro grande intellettuale a lui contemporaneo: Pier Paolo Pasolini. Due facce della stessa medaglia. Se Pasolini è malinconico, pessimista, anarchico e apocalittico nel porre le sue critiche, Guareschi è goliardico, sferzante e anche un po’gigione. Ma questo non impedisce ai due di collaborare e frutto di questa collaborazione sarà, nel 1963, il documentario La rabbia.

Così, cinquant’anni fa si spegneva Giovannino Guareschi. In quel 1968 che, come già detto, stava dissolvendo il mondo piccolo per sostituirlo con una terra di nessuno, priva di valori e di riferimenti. Questa trasformazione fa in tempo a criticarla con la raccolta di racconti Don Camillo e i giovani d’oggi, pubblicata postuma nel 1969. I capelloni che si ribellano ai padri, i vecchi trinariciuti, accusandoli di essersi imborghesiti (per Guareschi i veri borghesucci annoiati sono proprio loro); il Concilio Vaticano II e la schiera di “pretini progressisti” che esso produce (tra i quali vi è il tanto disprezzato, da Don Camillo che alle direttive del concilio fatica ad adattarsi, Don Chìchì).

Chissà come, oggi, avrebbe dipinto gli eredi di quella sciagurata stagione Giovannino Guareschi. Colui che per tutta la vita è sempre stato un goliardico frondista.

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