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Gli affari con l’Iran possono costare cari all’Italia e alle sue imprese

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Spesso e volentieri, negli ultimi anni, il nostro Paese ha dimostrato più volte di condurre una politica estera inoculata, inadatta a soddisfare gli interessi italiani e spesso subordinata nei confronti dell’asse franco-tedesco, vero traino della politica, anche estera, europea. E il rapporto intrapreso recentemente con la Repubblica Islamica dell’Iran non è da meno: i nostri governi, con Renzi prima e Gentiloni poi, hanno ciecamente assecondato un’apertura nei confronti dell’Iran, credendo ingenuamente nelle promesse riformiste del presidente iraniano Rohani. Promesse rimaste tali.

Con l’ultima legge di bilancio, il Ministero dell’Economia e delle Finanze ha concesso a Invitalia, agenzia del Ministero che ha come obiettivo l’attrazione di investimenti in Italia, di operare anche in Paesi ad “alto rischio”, come l’Iran. L’11 gennaio 2018 è stato firmato infatti un accordo quadro di finanziamento (Master Credit Agreement) tra la Invitalia e le banche iraniane Bank of Industry and Mine e Middle East Bank, dal valore complessivo di 5 miliardi di euro, con il benestare del ministro dell’economia e delle finanze italiano, Pier Carlo Padoan, e del vice ministro per gli affari economici e le finanze dell’Iran e presidente dell’OIETAI (corrispondente alla nostra Invitalia), Mohammad Khazaee. Questo accordo promette investimenti in progetti e partnership in Iran, realizzati congiuntamente da imprese italiane ed iraniane, in settori come quello energetico, chimico, metallurgico e nelle infrastrutture. Fin qui tutto molto bello, ma qualcuno si è dimenticato cos’è l’Iran.

Parliamo di uno Stato tra i primi al mondo per quanto riguarda la corruzione, dilagante fino ad altissimi livelli, spesso collegato tramite il riciclaggio di denaro al terrorismo di matrice qaedista, guidato da un regime teocratico nel quale i diritti umani e civili sono calpestati di continuo: esecuzioni sommarie, torture, pene crudeli ispirate alla Sharia più estrema, discriminazioni etniche. E ancora, repressione insistita di qualsiasi forma di associazionismo, attivismo e sopratutto femminismo, con le autorità iraniane che hanno classificato sempre più spesso qualsiasi iniziativa collettiva legata ai diritti delle donne come attività criminale. Senza dimenticare l’aggressiva politica estera iraniana in Medio Oriente: l’obiettivo di creare un “corridoio sciita” che colleghi l’Iran e il Libano passando per Iraq e Siria sembra molto vicino. Proprio in Siria, Teheran ha iniziato a costruire basi militari e strutture missilistiche per colpire Israele. Un regime, quello degli
ayatollah, che non si fa problemi a dichiarare ai quattro venti di volere la totale distruzione di Israele, nostro partner e forse unico barlume di democrazia e libertà presente oggi in Medio Oriente. Fare affari con un regime del genere vuol dire mettere a rischio la credibilità delle imprese italiane, nonché dell’Italia stessa.

Proprio a dicembre 2017, la popolazione iraniana è insorta contro le promesse mancate di Rohani e il caro vita, generato anche dalle campagne in Siria e Iraq, costate un occhio della testa. Le autorità iraniane hanno represso in maniera violenta, talvolta col sangue, le manifestazioni dei cittadini. Dalle cancellerie europee non è arrivata nessuna condanna seria, solo blandi comunicati di facciata a cui ormai nessuno crede. L’unico a prendere posizione è stato il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, che ha pubblicamente supportato le manifestazioni dei cittadini iraniani. Ed è proprio Trump una delle variabili che, probabilmente, ci farà pagare caro la scelta di legarci così tanto all’Iran.

Il presidente statunitense ha da sempre affermato che l’Iran è una minaccia, e anche a ben vedere: test missilistici, supporto ai ribelli in Yemen, dotando loro di missili per colpire l’Arabia Saudita, rivale storico di Teheran; ma anche, come accennato in precedenza, le continue minacce dirette e indirette verso Israele, attraverso gruppi come Hezbollah in Libano, vera diramazione armata del volere degli ayatollah. Tutto questo ha portato il presidente a riconsiderare l’accordo sul programma nucleare iraniano, il cosiddetto Iran Deal, o Joint Comprehensive Plan of Action (Jcpoa), com’è ufficialmente definita l’intesa. A gennaio, il presidente Trump ha lanciato un ultimatum: o si cambia l’accordo, rendendolo più stringente per Teheran, o gli Stati Uniti si ritirano. In fretta e furia, l’Alto Rappresentante dell’Unione per gli affari esteri, Federica Mogherini, ha convocato a Bruxelles i ministri degli esteri di Francia, Germania e Regno Unito, coinvolti nell’accordo. Se per condannare la repressione avvenuta in tutta la Repubblica Islamica c’è stato un omertoso silenzio da parte dell’Alto Rappresentante e dei governi europei, non c’è stato alcun problema a ribadire la volontà di mantenere l’attuale impianto dell’accordo e condannare piuttosto Trump. Sta di fatto che, in mancanza di modifiche, il presidente, come ci ha abituato, farà quanto promesso, ovvero ritirare gli Stati Uniti dall’accordo. Ciò comporterebbe il ritorno delle sanzioni nei confronti dell’Iran e di chi intrattiene rapporti con Teheran.

A questo punto, imprese italiane, senza alcuna colpa, si ritroverebbero sotto inchiesta da parte di una qualche commissione americana, rischiando pesanti multe e sanzioni. I nostri vicini europei, capendo subito l’antifona, si stanno muovendo con cautela nei rapporti bilaterali con l’Iran, mentre noi concludiamo accordi quadro di finanziamento. Ciò rappresenterebbe inoltre un danno d’immagine evidente, sia nei confronti degli investitori in Italia, sia verso gli Stati Uniti e Israele e, più in generale, il quadro atlantico. Muoversi in questa direzione sembra quasi un “suicidio”, economico e politico, dell’Italia, soprattutto in vista delle prossime elezioni a marzo. Considerando quindi un grave errore legarsi economicamente e politicamente a Teheran, sarebbe il caso che ai piani alti rivalutino tutto l’impianto di accordi fatti fino ad ora, in quanto il rischio di bruciare risorse, asset, e la credibilità delle nostre imprese e dell’Italia, è altissimo.