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Gli ambientalisti intolleranti che vorrebbero rieducare la comunità ma sono i primi a non rispettarla

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Nella galassia dei movimenti di protesta che puntualmente manifestano nelle principali città occidentali, una menzione particolare spetta negli ultimi giorni a Extinction Rebellion, gruppo ambientalista nato nel Regno Unito due anni fa che lunedì scorso ha massacrato il prato che cinge il Trinity College all’Università di Cambridge, vangandolo e riducendolo ad un cumulo di zolle e terra. Prato che è vietato calpestare, presidiato da guardie pronte ad intervenire nel caso qualcuno osasse trasgredire la norma, ma questa volta – chissà come mai – non è accaduto. Armati di badili e vanghe (video), gli attivisti hanno avuto campo libero per sfogarsi contro la storica istituzione accademica colpevole di coltivare legami economici con aziende del settore energetico e petrolifero. “Il college rispetta il diritto di libertà di parola e la protesta non violenta, ma pone dei limiti di fronte ad azioni criminali e ha invitato i manifestanti ad andarsene”, si leggeva in una dichiarazione rilasciata in seguito dall’istituto, quando ormai era troppo tardi.

È solo l’ultima di molte azioni eclatanti compiute da Extinction Rebellion che lo scorso autunno aveva preso d’assalto le stazioni ferroviarie impedendo ai pendolari di recarsi al lavoro. In assenza di un vero e proprio intervento delle forze dell’ordine, erano stati gli stessi cittadini a prendere l’iniziativa, trascinando via con la forza gli attivisti. C’è un che di surreale in scene come queste: perché se è vero che il diritto di manifestare va salvaguardato e protetto, è altrettanto vero che vanno garantiti il buon senso e il diritto della comunità a vivere tranquillamente. Eppure non sempre è così, come se le persone chiamate a presidiare i confini oltre i quali non è concesso andare fossero presi dalla paura di non passare per i cattivi che impediscono la libertà di espressione – e correndo così il rischio di diventare complici di chi abusa.

Nella sfera occidentale del globo si è infatti diffuso il timore di non voler offendere gruppi che, per quanto minoritari, finiscono per avere un notevole impatto sulla vita di tutti i giorni. Non solo impedendo ai pendolari di andare a guadagnarsi la giornata, ma imponendo nuove linee guida su ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, spingendosi a riscrivere addirittura la storia. La nuova retorica intollerante ha preso piede in quei luoghi che dovrebbero invece promuovere il confronto di idee e il senso critico come le università: dalla caccia alle statue e ai ritratti di personaggi ritenuti scomodi perché accusati (spesso da morti) di razzismo alla censura di quotidiani e riviste considerati immorali e indecenti, fino all’isteria anti-Trump negli atenei americani e allo squadrismo riservato ad autori indigesti in quelli italiani.

È uno schema perverso oltre che intollerante. Alla base di questi gruppi di pressione c’è la volontà di sensibilizzare la comunità a comportamenti più sensibili su alcuni temi caldi, da quello ambientale ai cosiddetti diritti civili: istanze più che legittime in nome del concetto stesso di libertà, ma ciò non autorizza all’esagerazione dei gesti. Non si sensibilizza mancando di rispetto agli individui che pur pensandola diversamente fanno parte di un’unica comunità di persone e compiendo vandalismi negli spazi in cui la comunità stessa si muove, fosse anche soltanto un giardino di un college britannico fino all’altro ieri rispettato da tutti. Sarebbe ora che il concetto risultasse chiaro a tutti: agli esponenti più focosi tra i movimenti di protesta e a chi è chiamato a far rispettare le regole, ligio magari con chi non alza la voce e meno attento con chi si sente facilmente offeso perché qualcuno osa contraddirlo.

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