Dopo due mesi di lockdown, e con un massiccio piano di sussidi alla disoccupazione, le prospettive dell’economia britannica sembrano incerte. Come gestire questo momento, continuando a promuovere il libero mercato e arginando le spinte protezioniste? Lo abbiamo chiesto al professor Philip Booth, preside della Facoltà di pedagogia, scienze umanistiche e sociali presso la St Mary University, Twickenham, e senior academic fellow dell’Institute of Economic Affairs.
ARIANNA CAPUANI: Il governo ha intenzione di estendere i sussidi all’occupazione fino a ottobre. Quale pensa che sarà l’impatto a breve termine sull’economia britannica?
PHILIP BOOTH: L’impatto a breve termine sarà quello di permettere ai datori di lavoro di continuare a tenere i propri dipendenti senza che il loro sia un pieno impiego. Al momento lo schema dei sussidi è rigido, ed è difficile per le aziende cambiare modello aziendale, cosa che potrebbero desiderare di fare in conseguenza della crisi. I sussidi all’occupazione, così come sono stati pensati all’inizio, funzionano se si ferma l’economia per tre settimane; ma se se lo si fa per sei, o per dodici settimane, diventa molto più difficile, perché le aziende non possono ricominciare da dove avevano smesso ed è più facile che dichiarino fallimento, o che licenzino. Inoltre, i sussidi all’occupazione possono rallentare il processo e rendere più difficile entrare nel mercato del lavoro e trovare impiego una volta che le cose saranno tornate alla normalità. È un equilibrio difficile, ma il problema di fondo non sono i sussidi all’occupazione, in un contesto di alternative molto imperfette: se mai è un lungo lockdown in un’economia relativamente dinamica.
AC: Quali sarebbero invece gli effetti di lungo termine?
PB: In molti speravano di poter ottener una recessione a “v”, ovvero un crollo del reddito nazionale seguito da una netta ripresa. Al momento sono molto scettico. Questa sospensione dell’attività economica e il cambio della modalità in cui operano le aziende causerà molti problemi. Le università da una parte, e i trasporti e il turismo dall’altra, sono degli esempi di come non sia ancora chiaro se le imprese saranno in grado di ritornare a lavorare come prima. Con un aumento significativo della disoccupazione, le abilità dei lavoratori si deterioreranno, e sarà più difficile ritrovare un impiego. Credo quindi che per molto tempo avremo un elevato tasso di disoccupazione. Se il numero delle aziende fallite sarà elevato, esse non potranno ricominciare senza fondi. Avremo quindi una ripresa più lenta di quanto non vorremmo, e più lenta sarà la ripresa, più permanente sarà la perdita di produzione.
AC: E Brexit nello stesso momento?
PB: Non credo che Brexit sia così importante. L’educazione terziaria ne è un esempio tipico. In un certo senso, le università avevano espresso le loro preoccupazioni prima del Covid-19, ma adesso è solo un problema di secondaria importanza di una lunga lista. Adesso quasi nessuno parla più di Brexit, tutti i problemi collegati al Covid-19 trascendono tutti quelli legati a Brexit, e i disagi arrecati ai modelli aziendali saranno tali che sarà possibile gestire Brexit mentre si affronterà tutto il resto, ed è per questo che non credo sia necessario estendere il periodo transitorio. Quel che è davvero importante è promuovere la causa della globalizzazione, al momento minacciata, ed è importante che il Regno Unito assuma un ruolo di guida dei Paesi a essa favorevoli, assicurandosi che l’opinione pubblica sia in favore del libero scambio, senza imporre nuove barriere per fronteggiare la crisi del Covid.
AC: Teme che l’opinione pubblica si ritragga su posizioni protezioniste?
PB: In molti hanno espresso il desiderio che il Regno Unito diventi maggiormente protezionista. Ad esempio hanno attribuito la scarsità di dispositivi protettivi alla mancanza di una manifattura specializzata in patria. Ma non si può progettare tutta l’economia di un Paese sull‘eventuale necessità di grandi quantità di dispositivi protettivi, o sull’eventualità di una qualsivoglia crisi. In realtà, la supply chain è stata piuttosto robusta. L’unico bene di consumo scarso è stata la farina, che è in gran parte prodotto nazionale, quindi, in un certo senso, le supply chain globali possono essere un po’ più fragili, ma sono anche in grado di diversificare i rischi. Per fare un paragone con gli anni Settanta, in caso di uno sciopero dei minatori l’economia sarebbe collassata. Il carbone era prodotto nazionale, parte di una supply chain più robusta, ma più a rischio per via dell’assenza di alternative. Adesso, se si verifica un problema nell’approvvigionamento di determinati beni o servizi in qualsiasi parte del mondo, si cerca altrove, oppure prodotti sostitutivi. Quindi non credo che lo sviluppo di supply chain globali abbia reso l’economia mondiale più fragile quando si verificano eventi come la pandemia del Covid.
AC: Uno dei suoi interessi principali è la dottrina sociale della Chiesa. Quali dovrebbero essere le maggiori preoccupazioni dei cattolici nel contesto attuale?
PB: Ci sono tre punti principali. Uno di questi è come comportarsi in una situazione che richieda di scegliere come utilizzare le proprie risorse per difendere vite umane. È stato alla fine meno problematico del previsto, visti gli ingenti sforzi del governo per proteggere l’NHS. Il secondo punto è come portare avanti una pastorale dei fedeli. Credo che i vescovi di Inghilterra e Galles, ma anche di Scozia e in altri Paesi europei si siano comportati come burocrati. Invece di spingere i sacerdoti, con la dovuta prudenza e cautela, a continuare il loro servizio ai fedeli, sembrano aver fatto l’opposto: e non si sono curati di spingere il governo a tenere le chiese aperte per la preghiera privata. È interessante il paragone con San Carlo Borromeo, che si recava in visita dagli appestati, a rischio della vita.
Un’altra lezione da ricavare è che in senso stretto l’NHS è stato risparmiato, ma questo è successo perché l’economia è stata praticamente fermata per limitare gli effetti del Covid. Ma se si guarda ad alcune procedure, che sono nella migliore tradizione centralizzatrice dell’NHS, come l’esecuzione dei test, sembra davvero l’Unione Sovietica negli anni Ottanta. Ogni volta che un obiettivo non viene raggiunto, se ne fissa uno più ambizioso, per distrarre l’attenzione dal fatto che si è fallito la prima volta. Quindi, non riusciamo a eseguire centomila test, allora ci diamo il nuovo obiettivo di duecentomila test: e poi si scopre che nel conto dei centomila erano compresi anche i test che non sono stati utilizzati. Credo che la lezione da ricavare da tutto questo sia che i sistemi decentralizzati, di certo quello tedesco, si sono rivelati più efficaci di quello britannico. I cattolici nel Regno Unito sono molto leali all’NHS, ma è una posizione difficile da conciliare con la dottrina sociale della Chiesa.
Infine, l’ultimo punto da sottolineare è che la maggior parte dei commenti cattolici erano incentrati sul ruolo del governo in materia di ineguaglianza e assistenza sociale. Si tratta di argomenti importanti, ma che non sono appannaggio esclusivo del governo. I cattolici dovrebbero anche parlare dell’importanza del lavoro e di un adeguamento dell’economia, una volta terminato il lockdown, perché questa ricominci a creare nuovi posti di lavoro.