Con tempismo non proprio dei migliori, Francia, Regno Unito e Germania, i tre Paesi europei impegnati a salvare l’accordo sul programma nucleare iraniano voluto da Obama, da cui però l’America di Trump è appena uscita, hanno inviato ieri una lettera a Washington per chiedere che le loro imprese siano esentate dalle sanzioni Usa e possano quindi continuare a operare in Iran. Conditio sine qua non posta dal regime di Teheran per la sopravvivenza del Jcpoa. Senza questa esenzione, infatti, “lo statuto di blocco” adottato ieri dalla Commissione europea, limitandosi a stabilire la non applicabilità delle sanzioni su territorio europeo, può fare ben poco per tutelare gli affari Ue-Iran. E si parla persino di usare la Bei (Banca europea per gli investimenti) per favorire gli investimenti europei in Iran, con il rischio di esporre un’istituzione Ue all’onta di essere sanzionata per un sostegno indiretto alle attività criminali e terroristiche del regime. L’Ue stessa potrebbe essere accusata di sostenere il terrorismo attraverso la Bei.
Una richiesta, quella dell’esenzione, che arriva dopo il tour diplomatico in Europa del premier israeliano Netanyahu, che ha mostrato a Macron, May e Merkel i documenti che provano la concretezza della minaccia iraniana, evidentemente senza aver scosso le certezze dei tre leader europei. Ma soprattutto due giorni dopo l’annuncio da parte della Guida Suprema Khamenei dell’avvio di un piano per aumentare la capacità di arricchimento dell’uranio, in pratica il numero delle centrifughe attive. Il direttore dell’Agenzia atomica iraniana, Akbar Salehi, ha annunciato la possibile apertura a Natanz di un nuovo centro di produzione, aggiungendo che “se continuassimo in modo normale” ad arricchire uranio, “ci metteremmo sei o sette anni per arrivare ad un risultato che ora potremo raggiungere in pochi mesi”.
Probabilmente è vero, come assicura Parigi, che la decisione iraniana non viola (ancora) formalmente i parametri del Jcpoa, ma al tempo stesso dimostra quanto l’accordo del 2015 sia troppo lasco nella sostanza, tanto da permettere a Teheran di conservare intatta la capacità di accelerare come e quando vuole il suo programma nucleare e, dunque, quanto siano fondate le preoccupazioni israeliane e americane.
Ma in Europa ancora si fatica a comprendere (o si finge di non comprendere) quanto sia mutato lo scenario mediorientale. Il cambio di rotta dell’amministrazione Trump, tornata al fianco degli storici alleati Usa nella regione, ha permesso a Netanyahu di prendere l’iniziativa, con una combinazione di hard power e diplomazia, e sta isolando Teheran, o quanto meno frustrando le sue ambizioni egemoniche. Come conseguenza della determinazione americana e israeliana a non lasciare campo libero in Siria ad un asse russo-iraniano, ora che la guerra volge al termine con esito favorevole ad Assad, Putin sembra aver compreso che non è nel suo interesse consentire agli iraniani di realizzare il loro disegno anti-israeliano nel Paese. Da parte sua, l’Egitto di Al Sisi sembra intenzionato a tenere sotto controllo Hamas, dopo Hezbollah l’altro braccio armato attraverso il quale Teheran cerca di minacciare Israele.
L’Europa resta l’unica, quindi, non accettando di soffocare definitivamente le ambizioni iraniane per quanto riguarda il nucleare, a voler restare fuori da questo schema di contenimento nei confronti di Teheran, in cui sono impegnati Stati Uniti, Israele, la maggior parte dei Paesi arabi e in una certa misura anche Russia e Turchia. Valgono così tanto gli affari in Iran, anche se non saranno mai davvero al riparo da rischi di natura politica e finanziaria, o è diventata una questione di mero principio, per affermare in qualche modo la propria esistenza?