Lo avevamo anticipato qui su Atlantico: nelle elezioni parlamentari che si sono tenute in Iran il 21 febbraio scorso ciò che andava guardato non era il risultato, ma il dato dell’affluenza. Nel tardo pomeriggio di ieri, il regime ha reso noto che ad andare a votare venerdì scorso è stato solamente il 42,5 per cento degli aventi diritto al voto. Si tratta dell’affluenza più bassa da quando esiste la Repubblica Islamica, ovvero dal 1979. Per un regime che si fonda ideologicamente sulla partecipazione popolare, si tratta di un vero e proprio smacco. In pratica, di una delegittimazione de facto.
Prima di tornare sul dato dell’affluenza, qualche informazione sul risultato elettorale che, considerata la squalifica di quasi tutti i candidati sgraditi, era praticamente scontato. Secondo le informazioni che arrivano dalla Repubblica Islamica, i conservatori avrebbero vinto quasi tutti i 290 seggi a disposizione (pare 221 seggi), con i restanti seggi andati quasi tutti a candidati indipendenti. I riformisti, quelli “graditi a Khamenei”, avrebbero ottenuto meno del 10 per cento dei seggi disponibili. Il risultato negativo dei riformisti è anche, come suddetto, la diretta conseguenza del vero dato da evidenziare in questa tornata elettorale: 16.000 candidati squalificati a priori dal Consiglio dei Guardiani.
Tornando al dato dell’affluenza, che era il solo dato da guardare con interesse: tutti erano consapevoli che un’affluenza sotto il 50 per cento avrebbe indicato una delegittimazione del regime. Nel periodo pre elettorale, diversi sondaggi avevano evidenziato l’altissima probabilità di boicottaggio del voto da parte del popolo iraniano, ormai disilluso sulle prospettive di riforma interna del sistema. I sondaggi hanno fatto centro: come scritto in apertura, solo il 42,5 per cento della popolazione avente diritto di voto si è recata alle urne e nella capitale, Teheran, la partecipazione è stata appena del 25,4 per cento. Ad aver ottenuto la maggior parte dei voti è stato l’ex sindaco di Teheran Ghalibaf, ex Pasdaran, probabile prossimo speaker del Parlamento.
Dopo la pubblicazione del terrificante dato sull’affluenza, è arrivato il commento della Guida Suprema Ali Khamenei. Pur elogiando la partecipazione degli iraniani al voto, Khamenei ha denunciato il tentativo dei nemici di provocare il fallimento della tornata elettorale, per mezzo di una intensa attività di propaganda ostile. Propaganda che sarebbe quindi aumentata con l’arrivo delle notizie relative alla diffusione del coronavirus in Iran. Forse non è un caso che, proprio con la scusa del coronavirus, il regime abbia deciso di non prendere le impronte digitali dei partecipanti al voto, affermando di voler evitare il rischio aumento dei contagi… (peccato che i sondaggi sulla disaffezione degli iraniani verso le elezioni parlamentari datavano ben prima dell’emergenza coronavirus).
L’obiettivo politico del messaggio di Khamenei è chiaro: preparare il regime alla fase 2 della vita della Repubblica Islamica, quella in cui l’establishment deve prendere atto del boicottaggio delle elezioni da parte della popolazione, della delegittimazione de facto e della necessità di costruire una narrativa costante del complotto, utile a mantenere il potere e a schiacciare ogni forma di dissenso interno. Per questo, inevitabilmente, la fase 2 della Repubblica Islamica vedrà il regime islamista tramutarsi sempre di più in una dittatura militare, dominata – come, se non peggio, del periodo Ahmadinejad – da un potere quasi assoluto dei Pasdaran e dei clerici. In tal senso, non è un caso che ben 15 personalità vicine al negazionista Ahmadinejad sono rientrate in Parlamento (tra loro Habibollah Dahmardeh, Ebrahim Azizi, Abdolreza Mesri, Hamid Reza Hajibabai e Ali Nikzad).
Il Parlamento che inizierà il suo lavoro tra qualche giorno, l’undicesimo dal 1979, sarà quindi fortemente ostile al presidente Rouhani e invece molto vicino a Khamenei, all’establishment clericale e alle Guardie Rivoluzionarie. Un dato non da poco, non solo per la difficile coesistenza che toccherà al presidente Rouhani, ma anche per il fatto che probabilmente, questo Parlamento potrebbe riscrivere parte della Costituzione iraniana, in vista della successione alla Guida Suprema Ali Khamenei, ovvero la carica più potente nel Paese.
Ecco perché non va vista come una coincidenza la terrificante notizia della condanna a morte di tre manifestanti arrestati durante le proteste del novembre 2019, quelle scoppiate dopo l’aumento del prezzo del carburante. La notizia è stata diffusa proprio domenica 23 febbraio dalla Corte Rivoluzionaria di Teheran, presieduta dal giudice ultraconservatore Abolqassem Salavati, noto per le sue violazioni dei diritti umani. I tre condannati a morte sono Amir Hossein Moradi, Mohammad Rajabi, e Saeed Tamjidi. L’annuncio suona come una terrificante minaccia contro coloro che, dopo le elezioni parlamentari, intenderanno tornare nelle strade per protestare contro il regime, ormai profondamente delegittimato.
Ma è difficile credere che le minacce e gli annunci di condanne a morte convinceranno gli iraniani, ormai privi di speranza per il futuro, a non tornare in piazza per manifestare la loro profonda rabbia verso l’establishment. Starà questa volta all’Occidente scegliere da che parte stare: se continuare a dialogare con un regime incapace di riformarsi e ormai delegittimato da oltre metà della popolazione, o dare sostegno a chi vuole davvero che l’Iran si trasformi in un “Paese normale”.