È ricorrente con riguardo al confronto militare fra Ucraina e Federazione Russa il richiamo al duello biblico fra Davide e Golia, per enfatizzare lo squilibrio di forze in campo, ma non sempre tenendo presente la conclusione di quel duello, che ci dice come fu vinto per determinazione e astuzia proprio da Davide. C’è chi sul mero computo degli eserciti che si fronteggiano, in termini di uomini, carri armati, aerei, missili, la dà persa in partenza, tanto da considerare un mero protrarsi dell’agonia quella perseguita da Zelens’kyj, foriera di massacri e distruzioni evitabili con una resa sostanzialmente incondizionata, perché questa e non altra sarebbe la dura realtà. Certo potrebbe essere anche una via di uscita, se fosse la guerra fra Zelens’kyj e Putin, ma non lo è, come dimostrano tre settimane di indomabile resistenza; è la guerra fra il popolo ucraino e Putin, che è in grado di imporla a 45 milioni di donne e uomini.
Si può dire ad un popolo intero di rinunciare alla propria identità, accettando una resa che è ben lungi dall’essere considerata inevitabile. Se il presidente ucraino si spinge a parlare di vittoria, certo lo fa per dare fiducia, ma la sua parola conterebbe poco o nulla se non fosse confermata dalla convinta partecipazione dell’intera popolazione. Non v’è dubbio che la conquista delle città, se pur parzialmente liberate di donne e bambini, costerà enormemente agli aggrediti, ma certo non di meno, anzi molto di più agli aggressori, che ne sono perfettamente consapevoli tanto da indugiare ad entrarvi, per occuparle militarmente.
La storia si sta ancora scrivendo, non è ancora scritta. La resa non è affatto garante di una trattativa minimamente negoziata, sulla bilancia grava sempre la spada di Brenno, la resistenza riequilibra in misura maggiore o minore i piatti, sulla base di quanto è già costata l’aggressione, ma soprattutto di quanto potrà costare ulteriormente, il popolo russo non lo sa, ma Putin e la schiera degli oligarchi lo sanno benissimo e lo sapranno ancora meglio una volta che le sanzioni saranno entrate a pieno regime.
La cosa che turba è la convinzione ormai radicata nella nostra gente che la libertà non meriti la vita, ci si sgola a mitizzare la resistenza al nazifascismo, senza tenere conto della sua lezione più grande, che si può andare incontro alla morte con niente altro della speranza di assicurare così la libertà a quanti verranno. Più di tante ricostruzioni fasulle e manifestazioni retoriche antifasciste, basterebbe far leggere nelle scuole le lettere dei condannati a morte della resistenza italiana ed europea, chi ha detto che se non c’è la certezza di vincere, non valga la pena di combattere, anche la certezza di perdere, può valerla, lasciandosi alle spalle un popolo conquistato ma non domato.
Più che gente pacifica noi siamo gente paciosa, all’insegna dell’“armiamoci e partite”, lo siamo sempre stati nella storia moderna, abituati ad essere conquistati e dominati, ma a contagiare gli occupanti con la nostra stessa capacità di sopravvivere, mentre la resistenza è stata sempre espressa da esigue minoranze. Niente di male, ma non possiamo assolutamente farne una prospettiva con cui valutare altra gente per cui la dominazione di una potenza confinante, già tragicamente sperimentata in passato, ha significato non solo qualcosa di molto vicino al genocidio, ma la edulcorazione di ogni caratteristica nazionale, a cominciare dalla lingua, per cui la risposta è una mobilitazione armata che coinvolge tutti, militari e civili.
Mi è capitato di rivedere l’altra sera un film, “L’ufficiale e la spia”, che ricordava sì il ben noto caso Dreyfus, ma con riguardo a quello che ne fu il vero protagonista, per quanto rimasto meno conosciuto, il colonnello Georges Picquart, chiamato a dirigere la Sezione statistica (Servizio di intelligence militare dell’esercito francese). Se pur incaricato di trovare ulteriori prove contro il capitano Alfred Dreyfus, già condannato per tradimento, si accorse che il vero traditore, una volta scartate quelle costruite ad arte e rinvenute altre assolutamente decisive, era un ufficiale francese di nome Esterhazy. Di qui iniziò la sua battaglia contro uno stato maggiore assolutamente non disposto a riconoscere l’errore, per l’enorme eco nazionale ed internazionale che il caso aveva acquisito, certo gonfiato dall’essere Dreyfuss un ebreo sì da alimentare un diffuso antisemitismo. Con una politica iniziale della carota e del bastone, Picquart fu promosso tenente colonnello e inviato in missione in un tour di ispezione, poi trasferito in Tunisia. Questo fu solo l’inizio, quando il vero traditore, Esterhazy, fu assolto in un processo da lui intentato per dimostrare la sua innocenza, Picquart fu arrestato per aver rivelato segreti di stato, imprigionato per 60 giorni, sanzionato disciplinarmente, per poi essere nuovamente costretto alla galera per quasi due anni.
Per lui non era in gioco solo l’innocenza di un singolo ma l’onore stesso dell’esercito francese che, come militare, coincideva con quello della Francia, lui solo contro un intero stato maggiore, che alimentava un clima avvelenato tale da coinvolgere l’intero sistema. Émile Zola, col suo celeberrimo “J’accuse”, si vide condannato ad un anno di prigione. Allora Picquart non sapeva affatto se avrebbe vinto, anzi tutto deponeva in senso contrario, lo squilibrio in campo era imponente, all’inizio solo, ma capace di suscitare un crescente movimento di opinione pubblica favorevole, era talmente convinto del suo assunto che ruppe con Dreyfus, per aver permesso alla sua famiglia di chiedere la grazia. Sappiamo benissimo a chi la storia ha dato ragione: Dreyfus ebbe la sua tardiva dichiarazione di innocenza, che, peraltro non lo ripagò di una vicenda distruttiva, della sua vita e della sua carriera, Picquart divenne addirittura ministro della guerra. Posso sbagliarmi, ma mi è sembrato che questa piccola grande storia contenesse una morale anche per l’eroica resistenza del popolo ucraino.