Il 25 ottobre in Sudan i militari hanno arrestato il primo ministro Abdallah Hamdok e gli altri esponenti civili del Consiglio supremo, l’organo di governo composto da civili e militari incaricato della transizione democratica dopo il colpo di stato militare che nell’aprile del 2019 ha deposto il presidente Omar al Bashir. A darne l’annuncio è stato il generale Abdel Fattah al Burhan, il capo delle forze armate che svolge le funzioni di presidente della Repubblica.
Il golpe dei militari mette fine a una difficile e in effetti inverosimile coalizione che nelle dichiarazioni di intenti doveva servire a dare finalmente una opportunità di sviluppo, unità e stabilità al Paese, dopo decenni di feroci guerre civili, e invece ha lasciato che affondasse sempre più nella crisi economica e sociale che ne fa uno dei Paesi più poveri e disperati del pianeta. Leader politici e militari si accusano reciprocamente e la popolazione si schiera, sempre più divisa.
Prima del golpe, il 16 ottobre, le strade della capitale Khartum si sono riempite dei dimostranti che chiedono tutto il potere all’esercito, accusando gli esponenti civili del governo di pensare solo alle “poltrone”, a come dividersi le cariche, convinti che solo un governo militare possa risanare l’economia. A istigarli contro i civili non sono soltanto i militari, ma anche i leader dei partiti e dei gruppi politici che sono stati esclusi dal Consiglio supremo e dagli altri organi incaricati del processo di transizione. Il 21 ottobre hanno manifestato invece i cittadini che sostengono un governo di soli civili. Accusano i militari di approfittare dello scontento popolare per riprendere il controllo del paese e bloccare la transizione democratica, sull’esempio di quanto è successo in Egitto, dove nel 2013 l’esercito ha assunto il potere con un colpo di stato dopo settimane di proteste popolari di massa.
I fatti sembrano dare ragione a questi ultimi. Il golpe c’è stato e in queste ore l’esercito reprime la rivolta dei cittadini scesi nelle strade della capitale e spara ad altezza d’uomo. Ma è la frammentazione della società, la disunione la prima e principale debolezza del Paese e il fatto che nessuno, o quasi, si preoccupi del bene comune, in effetti neanche lo concepisca. In Sudan ci sono da 80 a 100 partiti politici, espressione di altrettanti interessi di clan ed etnie. Il tribalismo, che domina la vita politica e sociale di tutti gli stati africani, ha assunto nel Paese le forme più esasperate per la concomitanza di tre fattori.
Il primo è la coesistenza, sempre estremamente problematica, di etnie nomadi, dedite alla pastorizia transumante, e di etnie stanziali, che praticano l’agricoltura. Il secondo fattore è l’appartenenza religiosa che in Africa, e non solo, rafforza l’identità etnica e quasi sempre aggrava la conflittualità tribale: la popolazione sudanese è divisa in musulmani e cristiani. Il terzo fattore è la presenza di ingenti risorse naturali – nel caso del Sudan, il petrolio – per appropriarsi delle quali clan ed etnie si battono cercando di occupare quante più cariche politiche e amministrative possibili, idealmente tutte.
Il destino del Sudan ne è stato segnato. Mai neanche per un momento è stato in pace da quando nel 1956 è diventato indipendente. La conflittualità etnica, endemica, è esplosa in due guerre tra le peggiori tra le tante che hanno sconvolto il continente africano e continuano a farlo. Il Paese è sempre stato dominato da una leadership espressione della popolazione di fede islamica che si considera superiore agli africani autoctoni perché di origine araba (risultato della colonizzazione arabo islamica iniziata in Africa pochi anni dopo la morte del profeta Maometto, nel 632 d.C). Al potere con un colpo di stato militare dal 1989, Omar al Bashir ha avviato un progetto di arabizzazione e islamizzazione del Paese. Nell’est del Sudan, nella regione del Darfur, per realizzarlo ha fatto leva sulla contrapposizione storica tra pastori di origine araba e agricoltori autoctoni, armando i primi contro i secondi. La guerra, combattuta dal 2003 al 2009 (ma l’accordo di pace finale, e si auspica definitivo, risale all’agosto del 2020), è costata, si stima, da 200 a 450 mila morti e circa 2 milioni tra rifugiati e sfollati. Responsabile di massacri e infinite sofferenze inflitte alle popolazioni agricole, sebbene di fede islamica, nel 2008 al Bashir è stato il primo capo di stato a essere oggetto di un mandato di cattura internazionale emesso dalla Corte penale internazionale. È accusato di genocidio, crimini di guerra e crimini contro l’umanità.
Altre, ancora più numerose vittime della leadership arabo-islamica sono state le etnie cristiane, concentrate negli stati del sud, perseguitate per decenni, con tanta più spietata determinazione a causa della scoperta di grandi giacimenti di petrolio nel centro sud del Sudan che Khartum non era disposto a lasciar amministrare neanche in parte dai governanti meridionali. Questa seconda guerra è finita nel 2006, con un bilancio di tre milioni di morti e quattro milioni di profughi. L’accordo comprensivo di pace raggiunto dopo anni di trattative, mediate dalla comunità internazionale, prevedeva che le popolazioni meridionali decidessero con un referendum tra l’autonomia e l’indipendenza. Ha vinto l’indipendenza e nel 2011 è nato il Sudan del Sud. Quel che resta del Sudan ha perso tre quarti dei giacimenti di petrolio che si trovano nel sottosuolo del nuovo stato, una ricchezza immensa (due anni dopo, nel 2013, le due etnie maggiori del Sudan del Sud, i Dinka e i Nuer, si dichiaravano guerra per aggiudicarsene il controllo).
Il giorno dopo il golpe il generale al-Burhan ha annunciato che è già pronto un lungo elenco di ministri, il che fa pensare che fosse stato programmato da tempo. Ha affermato che i militari sono stati costretti a prendere il potere per evitare una guerra civile perché i leader politici arrestati stavano incitando la popolazione alla rivolta. La repressione in atto a Khartum, dove migliaia di persone stanno manifestando contro il golpe, ha già fatto almeno dieci morti. L’esercito va di casa in casa per arrestare i leader delle proteste. Il personale della banca centrale è entrato in sciopero e in tutto il Paese i medici hanno dichiarato che rifiuteranno di esercitare negli ospedali militari se non per situazioni di emergenza.