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Governo politico Quirinale-Bruxelles per blindare l’Italia. Pd: urne vuote, Palazzi pieni

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A scorrere la lista dei ministri del governo Conte 2 la nostra impressione è che sia il Partito democratico il partito di maggioranza relativa e il Movimento 5 Stelle il junior partner, ma le interpretazioni degli osservatori in queste prime ore divergono fortemente e molti sostengono che in realtà sia il primo ad essersi consegnato nelle mani del secondo. Proviamo a dipanare la matassa. Il Pd è in un governo con Conte premier e Di Maio ministro: messa così, appare una staffetta Lega-Pd in un contesto di sostanziale continuità. Ma a noi appare di gran lunga più complicata. Come dicevamo, era impossibile un equilibrio win-win per Pd e M5S nella nuova squadra. Se come rivendica Di Maio tutti i 26 punti del Movimento sono entrati nel programma, tuttavia si nota una buona dose di discontinuità nei nomi dei ministri. Tra i 5 Stelle vengono riconfermati solo Bonafede e Costa, nei due ministeri dove evidentemente è più forte la convergenza tra i due nuovi alleati: giustizia e ambiente. Di Maio, pur essendo il capo politico, ha rischiato fino all’ultimo di restare escluso dai ministeri di peso, e ha dovuto comunque rinunciare al super-ministero sviluppo economico e lavoro da cui passano le promesse elettorali caratterizzanti della sua campagna, che ha portato il “suo” Movimento al 34 per cento: salva onore e posizione personale, ma la sua leadership esce ridimensionata.

Senza alcun vicepremier, la nomina del 5 Stelle Fraccaro a sottosegretario alla presidenza del Consiglio è spiazzante: possibile che il Pd abbia lasciato Palazzo Chigi interamente nelle mani del M5S? No, non può essere. E infatti non è. Proprio questa nomina sembra suggerire che il premier Conte sia ormai ritenuto più vicino al Pd che al Movimento, tanto che Di Maio ha più volte ribadito il suo ruolo “super partes”, e chiesto e ottenuto di affiancarlo con un suo uomo. Se Conte non è del M5S, lui conserva il simulacro della leadership fino a fine legislatura, ma è chiaro che l’indirizzo politico del governo non è in mani 5 Stelle. Di chi allora? Ci arriveremo presto.

L’elemento ancora sottovalutato è la mutazione che in questo anno proprio Conte – tecnico indicato sì dal M5S, ma di area Pd-Vaticano – è riuscito a far compiere al Movimento. Il voto decisivo degli eurodeputati 5 Stelle per Ursula von der Leyen, preceduto dall’elezione di Sassoli (Pd) alla presidenza e di Castaldo (M5S) alla vicepresidenza del Parlamento europeo, e la resa alla Commissione sulla manovra 2020 per evitare la procedura di infrazione sono stati i “momenti Tsipras” che lo hanno “normalizzato”, disinnescando la sua carica eurocritica e anti-sistema, premessa indispensabile per qualsiasi ipotesi di intesa con il Pd, e quindi preparandolo alla “svolta” – tanto che proprio quegli atti hanno convinto Salvini a rompere. Dopo che il boom della Lega previsto dai sondaggi si è materializzato nelle urne il 24 maggio, è scattato il piano d’emergenza condiviso tra Roma (Quirinale e Palazzo Chigi), Berlino e Parigi per isolarla in Italia e in Europa, dividerla dall’alleato di governo e, come conseguenza inevitabile, marginalizzare il corresponsabile in casa 5 Stelle dell’avanzata leghista, in quanto firmatario di quell’accordo malefico: Luigi Di Maio.

Il guaio per Di Maio è non aver compreso in quale squadra fosse passato Conte dopo le europee (qui su Atlantico non ci era sfuggito il cambio di casacca), averlo compreso troppo tardi o averlo compreso senza aver potuto contrastarlo. Fatto sta che pur restando premier, Conte non è più quello del “populismo e sovranismo scritti nella nostra Costituzione” e, pur alla guida di un importante ministero, Di Maio è messo in condizioni di non nuocere. Ma, soprattutto, come abbiamo cercato di spiegare ieri, quello che si allea con il Pd non è più il Movimento post-ideologico da 30 e oltre per cento, bensì una costola della sinistra all’interno di uno schema non solo compatibile ma funzionale al sistema di potere italiano ed europeo.

Il M5S è fuori anche da due ministeri chiave che di solito un partito di maggioranza relativa occupa senza particolari problemi: interni ed economia. Fuori Salvini, Di Maio ha pensato di potersi assicurare il primo, magari sperando di veder crescere i suoi consensi proseguendo sulle orme del predecessore. Niente. Anche nel Conte 1 aveva dovuto rinunciare al Mef, occupato da un tecnico, ma ora è andato addirittura al socio di minoranza. Ministeri troppo strategici, su cui nei prossimi mesi il governo si giocherà le sue chance (poche, a nostro avviso) di sgonfiare il consenso di cui gode Salvini. Non sorprende dunque che il Quirinale abbia di fatto assunto il controllo del Viminale, con un prefetto che cercherà di tornare ai porti aperti e all’accoglienza senza dare troppo nell’occhio, e che Bruxelles si sia assicurata Via XX Settembre con l’apparatchik Roberto Gualtieri – con la benedizione della presidente entrante della Bce Lagarde (“un bene per l’Italia e per l’Ue”) prim’ancora che Conte arrivasse al Quirinale con la lista.

Eletto per due legislature consecutive presidente della Commissione affari economici e monetari del Parlamento europeo con i voti di PPE e SD, di Berlino e Parigi, Gualtieri è l’interfaccia parlamentare di Moscovici, per intenderci. Un ministro dell’economia calato direttamente da Bruxelles, dalle commissioni Juncker e von der Leyen. Con in ballo una manovra da 1,6-1,8 per cento di deficit e la ratifica del nuovo ESM, non vogliono correre rischi.

Questo è il peso del Quirinale: i due vincitori delle elezioni del 2018 si sono dovuti accontentare di un ministro tecnico all’economia. Gli sconfitti, un anno dopo, l’hanno ottenuto sulla base della loro fede europeista.

La sfrontatezza con la quale il Pd ha ripreso a occupare tutto l’occupabile ricorda quella della scorsa legislatura, quando nonostante la “non vittoria” di Bersani, il 25 per cento dei voti, riuscì (grazie a una legge elettorale dichiarata poi incostituzionale) a governare praticamente indisturbato per tutta la legislatura e a prendersi il Quirinale.

In questo momento il Pd, con il 18 per cento delle scorse politiche e il 22 alle europee, oltre al Quirinale occupa la presidenza del Consiglio con un tecnico d’area, il Ministero dell’economia, la presidenza del Parlamento europeo appena rinnovato, e probabilmente occuperà a breve anche il posto di commissario europeo spettante all’Italia con Gentiloni. Invincibile nelle triangolazioni tra Palazzi, il Pd rischia però di precipitare verso nuovi abissi nelle urne. L’occupazione sistematica delle caselle del potere nei cinque anni della legislatura precedente, nonostante il 25 per cento del 2013, non è bastata a risparmiargli la batosta del 4 marzo. E nulla indica che il ritorno al potere di oggi, dopo solo un anno e senza passare per una riconciliazione con l’elettorato, basti a garantirgli di evitare nuove debacle.

La lista dei nuovi ministri conferma anche altri due aspetti che avevamo anticipato. Il governo più a sinistra dell’intera storia repubblicana, mentre gli elettori non hanno mai votato così a destra – una distonia che sottoporrà ad un forte stress il nostro sistema politico – e un’alleanza non innaturale, tanto che tutti i nomi sono molto politici (un solo tecnico, contro i due del governo gialloverde), il che indica una certa fiducia nelle affinità programmatiche e l’intenzione di durare. D’altra parte, però, tranne Franceschini per il Pd e Di Maio per il M5S, è un governo di seconde linee, molte alla primissima esperienza. I big, i capicorrente del Pd, sono rimasti alla larga. Non un segnale di solidità.

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