Il numero dei bambini su cui è stato sperimentato il vaccino è “troppo piccolo per rilevare qualsiasi potenziale rischio di miocardite associato alla vaccinazione”
Come avrete notato, non appena l’Ema ha approvato, settimana scorsa, il vaccino anti-Covid di Pfizer per la fascia di età dai 5 agli 11 anni, subito dal governo, dai televirologi e dai media mainstream è partita la nuova narrazione. Improvvisamente, contrariamente a quanto era stato affermato in questi due anni di pandemia, proprio i bambini dai 5 agli 11 anni sembrano essere ora le vittime preferite del Covid. Sono loro i principali “vettori” del virus, gli “untori”. E, scopriamo ora, la malattia non è più di così lieve entità per loro com’era fino a pochi giorni fa. “Il virus non se ne va”, avverte addirittura Ricciardi…
Affermazioni false, o quanto meno non più “vere” oggi rispetto a ieri, certamente molto strumentali, per convincere le famiglie a vaccinare i bambini secondo quel modello di informazione “somministrata” auspicato dal senatore Mario Monti, ma che ci sembra funzionare già a pieno regime. Al professor Andrea Crisanti, che invitava alla cautela sulla vaccinazione dei bambini per la scarsità di dati, Beppe Severgnini qualche sera fa ha risposto che “ci sono i congressi per dire certe cose, se voi le ripetete in prima serata, la gente si spaventa e non capisce più niente… Non in televisione e non in prima serata, professore”.
Da una parte è fisiologico vedere un incremento percentuale dei casi in questa fascia di età sul totale dei contagiati, essendo l’unica non vaccinata, dall’altra i dati parlano chiaro: ricoveri e decessi di bambini per Covid restano casi rarissimi e, ciò che non viene ricordato, per lo più in presenza di patologie pregresse anche gravi.
I dati: su 3,2 milioni di bambini dai 6 agli 11 anni, dall’ultimo report Iss, risultano dall’inizio della pandemia 251.221 contagiati, 1.423 ricoverati, di cui 36 in terapia intensiva, e 9 deceduti. Dunque, 1 su 10 mila in terapia intensiva e 4 su 100 mila morti, rispettivamente lo 0,01 per cento e lo 0,004 per cento.
Il buon senso – e non solo – suggerirebbe quindi maggiore cautela nella vaccinazione dei bambini. È vero che sono già sottoposti ad alcune vaccinazioni obbligatorie, ma si tratta di malattie ben più gravi del Covid in età pediatrica e di vaccini in uso da decenni, quindi di cui è già noto il rapporto rischi-benefici, di gran lunga sbilanciato a favore dei secondi. Sebbene i vaccini anti-Covid siano sicuri, perché esporre i bambini anche al minimo rischio, dal momento che per loro il rischio Covid è dello zero virgola zero qualcosa? Almeno questa fascia di età dovrebbe essere lasciata in pace, non dovrebbe rientrare nella logica dominante secondo cui la libertà di disporre del proprio corpo debba essere sacrificata per un presunto bene della collettività (molto presunto, visto che i vaccini anti-Covid non garantiscono l’immunità di gregge e danno una copertura molto limitata nel tempo).
Ma c’è un dato in particolare che suggerisce prudenza. Nel comunicato del 25 novembre in cui l’Ema ha reso noto di aver approvato il vaccino Pfizer per la fascia di età 5-11 anni, si cita a supporto della decisione uno studio su 2.000 bambini, di cui solo 1.300 hanno ricevuto il vaccino. Praticamente il campione di un sondaggio. Un po’ pochino, per un vaccino potenzialmente destinato a decine di milioni di bambini. E se un solo effetto avverso importante su 10 mila (vorrebbe dire 100 su 1 milione) fosse sfuggito?
La stessa Pfizer, in un documento ufficiale per la FDA americana (pagine 11 e 71), ammette che “il numero di partecipanti all’attuale programma di sviluppo clinico è troppo piccolo per rilevare qualsiasi potenziale rischio di miocardite associato alla vaccinazione. La sicurezza a lungo termine del vaccino Covid-19 nei partecipanti di età compresa tra 5 e 11 anni sarà studiata in 5 studi sulla sicurezza successivi all’autorizzazione, incluso uno studio di follow-up di 5 anni per valutare le complicazioni a lungo termine di miocarditi/pericarditi post-vaccinazione”.
In quelle stesse pagine, le conclusioni dell’analisi rischi-benefici si basano su mere supposizioni, non su trial e modelli statistico-probabilistici: siccome dai dati israeliani emerge che i casi – già rari – di miocarditi nella fascia 16-19 anni si riducono in quella 12-15, e dato che la dose che verrà somministrata ai bambini sarà ridotta ad un terzo, è “ragionevole prevedere” che i casi nella fascia d’età 5-11 saranno ancora meno.
Troppo presto anche per verificare gli effetti della vaccinazione sul campo. Negli Usa sono partiti l’8 novembre e hanno ricevuto la prima dose circa 3 milioni di bambini. In Israele il vaccino è stato autorizzato il 15 novembre e le prime somministrazioni sono del 23 novembre.
Un’analisi rischi-benefici della vaccinazione anti-Covid dei bambini condotta su dati ufficiali, italiani e americani, è stata pubblicata dal Corriere della Sera, non proprio una gazzetta no-vax, a firma Milena Gabanelli. Correttamente riporta anche il rapporto rischi-benefici delle comuni vaccinazioni in età pediatrica, dal quale si evince come le malattie per le quali già vacciniamo i nostri bambini sono per loro centinaia di volte più pericolose del Covid. E conclude che “dai dati disponibili finora per il vaccino contro il Covid tra i 5 e gli 11 anni è comprovato il rapporto rischi-benefici a livello di comunità”. “In attesa di risultati sulle reazioni avverse su larga scala (…) il beneficio certo è che vaccinando i più piccoli si andranno a proteggere anche tutti gli adulti che il vaccino non lo hanno fatto”. Insomma, ecco il paradosso: vaccinare i bambini, a rischio Covid zero virgola zero, per proteggere gli odiatissimi no-vax…
Il rischio con i bambini è di commettere lo stesso errore commesso con il Green Pass. Concentrare tutta la comunicazione e gli sforzi della campagna vaccinale su una fascia di età che finora si è dimostrata marginale nella circolazione del virus e trascurabile rispetto allo stress sul sistema sanitario, scaricando il peso di una scelta non facile sulle famiglie, mentre come vediamo in questi giorni si trascura il fattore di rischio principale – probabilmente l’unico decisivo delle prossime settimane: la copertura dei vaccini che svanisce settimana dopo settimana, giorno dopo giorno, in milioni di persone, molte delle quali anziane e over 50, che sono in possesso di regolare Green Pass e quindi libere di contagiare e contagiarsi.
Che sia questo il principale fattore di rischio lo dimostra il trend che da settimane vede crescere la percentuale di vaccinati in tutte le categorie: contagiati, ricoverati, terapie intensive e decessi. Per la precisione, dall’ultimo report (26 novembre) sono vaccinati il 60 per cento dei positivi (+3 punti rispetto a una settimana fa), il 48,5 per cento dei ricoverati (+2), il 34 per cento dei pazienti in terapia intensiva (+0,3 per cento), il 55 per cento dei morti (+3). Da notare che i dati di ricoveri e terapie intensive riportati sono indietro di una settimana rispetto a quelli delle diagnosi (fino al 14 novembre i primi, fino al 21 i secondi).
L’infrastruttura vaccinale ridotta e in affanno, e i numeri di questi giorni dimostrano ciò che stiamo sostenendo da settimane su Atlantico Quotidiano: troppo impegnato a inseguire e criminalizzare i non vaccinati, a silenziare le piazze, il governo Draghi si è fatto trovare totalmente impreparato sul fronte delle terze dosi. Anche la frettolosa apertura agli over 40 anni, prima di aver raggiunto percentuali accettabili tra le fasce di età più anziane, mostra la sottovalutazione del problema, il ritardo accumulato e una affannosa rincorsa.
Un fallimento che dovrebbe occupare le prime pagine dei giornali e le aperture dei tg se l’informazione mainstream non fosse ormai il “cane da guardia del potere”, ma non nel senso di scrutinio del potere, bensì nel senso di “al servizio del potere”, per proteggerlo dalle critiche, aiutarlo a diffondere la sua propaganda e perseguitare il dissenso.
Al di là degli “ingorghi”, del sistema di prenotazioni congestionato in molte grandi città, cittadini con il Green Pass in scadenza che si vedono fissare appuntamenti dopo settimane, i dati sono impietosi. Siamo ormai nel pieno della stagione più favorevole alla circolazione dei virus influenzale e oltre 12 milioni di vaccinati che hanno ricevuto la seconda dose da 5 mesi, di cui 5,4 milioni da 6 mesi, non hanno ancora ricevuto la terza dose. Milioni di vaccinati potenzialmente scoperti, con in tasca un pezzo di carta, e un codice QR, che non garantiscono nulla, né loro né chi gli è accanto.
Ma ancora più allarmanti sono le percentuali per fascia di età, che mostrano come si tratti soprattutto delle persone più a rischio di dover ricorrere a cure ospedaliere. Siamo all’inizio di dicembre e ha ricevuto la terza dose solo il 50 per cento degli ottantenni, il 20 per cento dei settantenni, il 16 per cento dei sessantenni e nemmeno il 10 per cento dei cinquantenni.
Che l’alternativa al Green Pass, o alla vaccinazione dei bambini, siano Dad e chiusure è una impostura. Una volta vaccinati i più a rischio con le terze dosi, non c’è più stress sul sistema sanitario e l’emergenza è finita.
L’esempio, la best practice da seguire? È quello britannico. Contrariamente alla vulgata sul governo Johnson, Londra ha adottato una strategia che si è rivelata estremamente pragmatica, che sta permettendo al Regno Unito di essere l’unico Paese in Europa completamente riaperto (da luglio) e non a rischio chiusure in vista delle festività natalizie. Gli inglesi si sono concentrati sulle terze dosi agli anziani, alle persone più a rischio, non su forme di costrizione nei confronti dei non vaccinati. Hanno un tasso di vaccinati con doppia dose leggermente inferiore al nostro, ma oltre 16 milioni con terza dose, mentre questa estate la circolazione del virus ha conferito l’immunità ad una importante fetta della popolazione più giovane non vaccinata.