Il dibattito sulla estensione del Green Pass, sul modello francese, a tutta una serie di ulteriori servizi e di attività rispetto a quelli per cui già oggi è effettivo, ha obliato un aspetto su cui invece varrebbe la pena soffermarsi: quello delle strutturali, caotiche, kafkiane complicazioni burocratiche che da sempre affliggono l’Italia, e che c’è da scommetterci finirebbero o finiranno per avvolgere, come un sudario, anche gli strumenti di implementazione (controlli, verifiche, raccolta dei dati) di questo istituto.
E se è chiaramente logico e comprensibile che le prime implicazioni ad essere messe sul metaforico tavolo del dibattito siano quelle di ordine costituzionale, bilanciando, valutando e contemperando distinti diritti e interessi in gioco, non può però prescindersi da una riflessione vertente sulle reali possibilità di successo di uno strumento che implicherebbe comunque una macchina quasi perfetta, capillare, rodata e soprattutto moderna.
L’Italia è quel Paese in cui da decenni si reitera il mantra sconsolato delle semplificazioni amministrative e legislative, l’idea generalizzata di un taglio drastico, draconiano, al flusso e allo stock di leggi e di incombenti amministrativi che gravano su cittadini e su imprese e che ci legano sin da quando nasciamo e che ci accompagnano fin dentro la tomba. From the cradle to the grave, come dicono nei Paesi anglosassoni.
Siamo ancora oggi il Paese di Flaiano che in “Diario notturno” scriveva “gli presentano il progetto per lo snellimento della burocrazia. Ringrazia vivamente. Deplora l’assenza del modulo H. Conclude che passerà il progetto, per un sollecito esame, all’ufficio competente, che sta crea”.
Un Paese i cui cittadini scoprono, magari andando in banca o ritirando l’estratto pensionistico, di essere morti a causa di un refuso burocratico o di una semplice disfunzione digitale, il Paese in cui la carta vidimata prevale sulla carne, sulla biologia e sulla logica, e in cui impiegati svogliati ma ferrei nella loro determinazione di contrastare la razionalità anche quando se la trovano davanti negheranno il vostro essere in vita.
Il Paese in cui, nonostante dematerializzazioni, autocertificazioni, digitalizzazioni, gli archivi traboccano di carte ingiallite, autentiche biblioteche di Babilonia dentro cui l’essere umano è dissezionato da un demiurgo burocratico senza alcuna forma di empatia.
Fantozziani nel nostro impulso masochistico a rendere la vita, la quotidianità, persino i sentimenti e le emozioni, un insieme frammentario di caselle da firmare, vidimare, timbrare e poi depositare in qualche cassettella sbocconcellata dalle tarme.
Illustri amministrativisti, da Aldo Travi ad Elio Casetta, hanno dimostrato la complicazione del semplificare, e nonostante le scene simboliche di roghi di leggi andate in onda negli anni scorsi siamo sempre al punto di partenza: perché, ed è questo fattore culturale, antropologico, noi amiamo le carte bollate, ci rifugiamo dietro e dentro di esse, per essere scriminati nella assunzione di responsabilità.
Viviamo per interposta persona, anzi, per interposto bollo: frasi come ‘non è di mia competenza’, ‘ci vuole il tempo che ci vuole’, il mantra burocratico-zen del ‘si è sempre fatto così’ – autopoietico e micidiale nella sua reiterazione consuetudinaria di marchiani errori che venendo replicati secondo la mentalità burocratica cesserebbero di essere errori – rappresentano la Bibbia e la summa del modo stesso dello stare al mondo del ceto burocratico, e tutto sommato di tutti noi italiani.
Perché se è vero che malediciamo il burocrate e l’ottusità di certe procedure, il grigiore di certe architetture da carcere che connotano Ministeri e Comuni, alla fine anche noi siamo carne della carne, sangue del sangue di quella stessa cultura: anche noi finiamo fino in Corte di Cassazione per una multa per doppia fila o per un gocciolamento di acqua dal balcone dell’inquilino del piano di sopra, anche noi ci serviamo della complicazione per rendere impossibile la vita a chi ci sta antipatico. La litigiosità endemica, la voglia di dire ‘l’ho fregato’, portano strutturalmente alla complicazione, all’inghippo che si cela tra le pieghe di un oceano in tempesta di codici, commi e regolamenti. Un mostro che si autoalimenta di continuo.
Immaginiamo quindi l’effettivo funzionamento del Green Pass esteso a un numero sempre crescente di attività: la misura necessiterebbe di una serie capillare, organica, di controlli e di verifiche, in alcuni casi decentralizzate in capo agli stessi esercenti o titolari dei servizi, come ha riconosciuto il Garante Privacy di recente.
Il titolare di una palestra ad esempio sarebbe chiamato ad un surplus di vigilanza, peraltro con non banali problemi in termini di esercizio effettivo del potere di verifica: fin quando, infatti, è lo Stato a determinare il potere di verifica, rimettendolo in capo ad autorità pubbliche, penso al personale delle Ferrovie e della Polizia ferroviaria quando si tratta di titoli di viaggio, il problema si pone in misura certo minore e restano in piedi solo le obiezioni di natura costituzionale su cui si controverte e si dibatte, ma quando invece il controllo dovesse finire sulle spalle del privato viene da chiedersi come la cosa potrebbe davvero avvenire.
L’italiano non rispettoso in genere nemmeno più della divisa o dell’autorità pubblica credete davvero che accetti di sentirsi rimbrottare, metaforicamente, da un esercente privato?
Precedenti poco confortanti in tal senso ci sono già stati, quando ristoratori e baristi vennero nei fatti, surrettiziamente, responsabilizzati a controllare la propria utenza, contingentando ingressi, controllando il rispetto delle misure di distanziamento sociale e che non si creassero assembramenti: nessuno ha mai spiegato né si è mai capito quali fossero i poteri effettivi e reali dell’esercente di un bar, e a dire il vero la risposta più plausibile sembra essere ‘zero’.
Probabilmente avrebbero dovuto avvertire le forze dell’ordine, e non operare in prima persona, ma siamo nel campo dell’inespresso, della possibilità, della opacità di norme più pensate per salvaguardare chi le stava redigendo piuttosto che la salute pubblica.
Qualcuno ricorda la tragicomica figura degli ‘assistenti civici’? Venne giustamente irrisa ma anche solo il fatto che sia stata pensata e comunicata da un allora ministro, senza aver mai chiarito quali funzioni, attribuzioni e in virtù di quali poteri essi potessero operare, la dice lunga assai sull’approccio burocratico-sloganistico che connota questo Paese.
Anche quando poi finiamo a parlare di approccio digitale e tecnologico, vorrei ricordare lo sfortunatissimo caso di Immuni e del tracciamento: Immuni non è stata vittima di complotti o della sempiterna privacy, ormai vista come una sorta di freno a tutto, ma semplicemente della mancanza di coordinamento burocratico tra centro e periferia, con comunicazioni scarne e scarse tra ASL, Regioni e Ministero.
Cosa può portarci a pensare che le disfunzioni già sperimentate, sia pure in altri versanti e settori, non finirebbero per replicarsi sul lato Green Pass?
A dire il vero, le disfunzioni già si stanno verificando. Lo sanno bene sia gli ex positivi al Covid sia i vaccinati con singola dose che per varie motivazioni, ad esempio l’insorta gravidanza per le donne o l’essere guariti dal Covid in un arco temporale non indicato per ricevere tutte e due le dosi, non sono riuscite ancora a effettuare la seconda dose e che non riescono ad avere chiarimenti su modalità e tempistiche per ricevere il Green Pass.
Le telefonate al numero verde, per molte persone ferme a una dose, si sono trasformate in un autentico calvario kafkiano, in un tetro gioco a rimpiattino. Scarsa la funzionalità del servizio, scarsa la linearità e scarsa la chiarezza dei processi decisionali.
La sensazione, ed è una sensazione che ormai va avanti da un anno abbondante, sin da quel groviglio amazzonico di Dpcm, decreti-legge, regolamenti, circolari, note che tutti assieme costituiscono il framework normativo di contrasto alla pandemia, è che il surplus burocratico, espandendosi sempre di più, diventi inutile dal lato della concreta effettività, avendo come unica funzione quella di deresponsabilizzare i decisori, i quali potranno nascondersi dietro la copiosa adozione di provvedimenti per dire ‘noi qualcosa abbiamo fatto, se non funziona la colpa è della irresponsabilità dei cittadini’.
Vi suona familiare? È quel che è davvero avvenuto, e una rapida carrellata dei titoli dei giornali dei mesi scorsi lo testimonia in maniera cristallina.
Che poi siano del tutto complicati, cervellotici o irrealizzabili i provvedimenti in oggetto sembra interessare ben pochi.
Uno strumento come il Green Pass, tanto più se in forma estesa, richiede, senza sconti, una macchina amministrativa tarata in maniera quasi perfetta, efficiente, puntuale, precisa. E, senza voler essere disfattisti, non sembra sia questo il caso dell’Italia e della sua amministrazione pubblica.