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“Homo ideologicus” al governo: le sbaglia tutte, ma persevera diabolicamente nell’errore

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Insegnava Giovanni Sartori che la risposta dell’homo ideologicus alle delusioni della realtà non può che essere una: potenziare l’ideologia, fino a raggiungere una torsione del reale. È quanto successo nei regimi comunisti (non i soli, ma particolarmente e in modo prolungato in quelli), al prezzo di una distorsione che di reale non aveva più nulla: eppure insisteva, sino a franare su se stessa. Sotto le macerie restavano i cittadini, tramutati in sudditi. Oggi vediamo una dinamica assai simile, come tale preoccupante, e solo in apparenza meno opprimente, col governo giallo-rosso alle prese con il Covid.

Un Esecutivo paradossale, perché diretto da una comparsa che di idee ha solo quella, personalissima, di durare, eppure ideologizzato come non mai, sia dalla parte grillina sia da quella di sinistra – postcomunista o neocomunista o paleocomunista che sia, a seconda delle troppe sfumature di rosso.

Governo che è riuscito a sbagliarle tutte, senza eccezioni di sorta: e persiste, diabolicamente persevera. Non c’è ambito della sua azione, per così dire, che non abbia fatto registrare disastri, delusioni, situazioni incomprensibili, condizioni allucinanti. Dalle defaillances burocratiche alla malagestione commissariale (leggi: Arcuri), al mancato approvvigionamento dei supporti utili – mascherine prima, tamponi quindi, vaccini poi – ma tutti pagati a troppo caro prezzo, alle incertezze diagnostiche dei virologi e degli stessi medici curanti, alla patetica inconsistenza del ministro sanitario Speranza, alla tragicomica insussistenza di quello economico Gualteri, alla rovinosa comunicazione casalinesca all’insegna di un petaloso crudele, fino al climax delle sospensioni democratiche.

E qui si arriva alla vertigine ideologica: un anno di mascherine, di isolamento, di approccio concentrazionario, di atteggiamento paranoide non è servito: a detta degli stessi responsabili della gestione emergenziale a vario titolo, i contagi salgono, le “ondate” si susseguono, il mare sociale è in tempesta, l’indice di mortalità continua a crescere ed è il primo nel mondo, non di meno muoiono le attività professionali e commerciali: 500 mila nel 2020, e le superstiti si dibattono in apnea da mancati guadagni, ristori negati o offensivi. Quante saracinesche caleranno per l’ultima volta nei prossimi mesi? Quanta gente morirà non di Covid ma perché non curata altrimenti o per somatizzazioni della paura, dell’angoscia, dell’impotenza? Quanti costi non contabilizzati ci attendono ancora? Quante cadute nei precipizi dell’alienazione, dell’ipocondria, dell’azzeramento delle difese immunitarie per prolungata reclusione domestica? Quanti sacrifici della libertà sull’altare di una ideologia stralunata e feroce?

Ma gli homini ideologici al governo non si fermano. Promettono con ostinazione circolare che sarà l’ultima volta, per vivere serenamente il tempo che ci aspetta, e con la stessa decisione rotonda tradiscono; nelle loro misure sempre più deliranti, nello schizoide rimescolare veti, permessi, obblighi, perfino a giorni alterni, perfino a orario ormai, sembrano usciti definitivamente di senno; i loro compromessi sono improntati ad una miserabile follia, come se al di fuori di un Palazzo che nessuno è disposto ad abbandonare, la realtà non esistesse più. La realtà, più che torta, è contorta, ritorta e strangolata. Le istanze dei sudditi non vengono più tenute in alcun conto, la libertà è diventata un crimine e delinquente chi ancora la rimpiange o la insegue, la sfida è tutta interna alla faida: sulle contorsioni di un’alleanza che non c’è si giocano le sorti del lockdown sine die, mentre controlli, intrusioni, criminalizzazioni di ogni residua sfera privata si susseguono all’insegna di una trasmissione offensiva, non decifrabile, spesso oscena da parte del governo (o del regime).

I risultati sono a raggiera pessimi, questo è un gioco a somma negativa. Peggiore di tutti, l’isteria dilagante per cui non puoi più salire su un treno (nei rari sprazzi temporali in cui torna possibile) o sorbirti un caffè al bar (idem con zucchero) senza che l’esagitato di turno non ti investa contorcendosi come un derviscio perché hai la mascherina non in assetto. Sbraitano, chiamano le guardie, ti inseguono, diventano carogne, s’improvvisano delatori, cedono a una paura di morire che tradisce echi atavici, infantili, che si proietta in un odio irrazionale e fratricida. Esattamente come succede sotto al tallone delle dittature ad alto tasso ideologico. E, proprio come in queste, più il potere s’infogna nello sfacelo e più insiste, persuaso che basterà spezzare le reni alla realtà, ai conti che non tornano, per averla vinta: i prezzi poi non interessano, quando le conseguenze busseranno alla porta della resa dei conti, loro non ci saranno.

Ma c’è anche chi la sua paura di morire la declina in modo lucido e proprio per questo più tragico. È comparso in collegamento nella scorsa puntata di Quarta Repubblica un Vittorio Sgarbi irriconoscibile: rauco, avvilito, cereo, sconfitto, desolato e deserto, i capelli bianchi in fuga in tutte le direzioni a disegnare una immagine spaventosa. Sgarbi sembrava già morto. Guardarlo, sentirlo a fatica era specchiare la sua stanchezza nella nostra di uomini non ideologici ma sgomenti di fronte all’ammalarsi di ogni dignità.