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Hong Kong perde la libertà e l’Ue tedesca temporeggia sulla Cina, sperando che vinca Biden

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A Pechino interpretano la discussione europea sull’autonomia strategica non come la prova di un’Europa più unita, ma, al contrario, come un segno di indebolimento, dato che l’Ue si sta separando dal principale garante della sua sicurezza: gli Stati Uniti. Lo smantellamento dell’alleanza transatlantica – opera da tempo dell’Ue a guida tedesca, non dell’amministrazione Trump come molti pensano – non è accompagnato da un rafforzamento della difesa europea

Con l’entrata in vigore della legge sulla sicurezza nazionale voluta da Pechino, Hong Kong ha perso de facto la sua autonomia e le sue libertà, che il Partito Comunista Cinese si era impegnato a rispettare con la dichiarazione sino-britannica del 1984, a tutti gli effetti un trattato internazionale. Forte la condanna del segretario di Stato Usa Mike Pompeo, che ha anche denunciato la brutale e disumana repressione nello Xinjiang, ha chiamato le altre nazioni a battersi per la dignità del popolo cinese e confermato le sanzioni annunciate, tra cui la fine dello status speciale di Hong Kong. Citando, tra l’altro, l’articolo 38 della nuova legge, che estende la sua applicazione anche alle trasgressioni commesse al di fuori di Hong Kong, e anche dai non residenti, inclusi quindi anche i cittadini americani. Un “vergognoso affronto a tutte le nazioni”.

Insolitamente dura anche una dichiarazione del ministro degli esteri tedesco Heiko Maas, significativa perché nel giorno in cui Berlino assumeva la presidenza di turno dell’Ue:

“Quello che sta accadendo è estremamente preoccupante, perché riteniamo che l’autonomia di Hong Kong venga erosa in modo graduale e alla fine i rapporti tra Cina ed Europa ne risentiranno. L’Ue deve adottare rapidamente una posizione forte su questo”.

Parole che sembrano confermare quella “consapevolezza transatlantica” sulla sfida cinese di cui aveva parlato il segretario Pompeo pochi giorni fa, lo scorso 25 giugno, intervenendo al Bruxelles Forum del German Marshall Fund. “Inizio a vedere anche più realismo in Europa per quanto riguarda la minaccia del Partito Comunista Cinese”, aveva detto.

“Gli Stati Uniti e le nazioni europee hanno preso coscienza della realtà del ruolo della Cina come regime autoritario in ascesa e delle implicazioni per la nostra società libera. Il cover-up del PCC sull’epidemia di coronavirus da Wuhan – che ha ucciso migliaia di persone – ha accelerato la nostra presa di coscienza”.

Comprensibile che il segretario di Stato Usa voglia guardare con ottimismo ai rapporti tra Stati Uniti e “nazioni europee” sulla Cina, che voglia guardare al bicchiere mezzo pieno. Ma sulla questione, come molte altre indicative purtroppo del pessimo stato di salute dei rapporti transatlantici, il quadro è piuttosto disomogeneo, se non contraddittorio. Non a caso, Pompeo ha parlato di “nazioni europee”, e non Ue. Perché, certo, deve tener conto di alleati europei che non fanno parte dell’Ue, ma anche perché il “risveglio” più convincente sulla minaccia cinese è quello del governo Johnson a Londra.

Qualcosa, però, si sta muovendo anche dalle parti di Bruxelles. La dichiarazione congiunta dei ministri del G7, firmata anche da importanti stati membri dell’Ue come Germania, Francia e Italia. La Commissione europea che ha espresso “forte preoccupazione” per la disinformazione cinese, la situazione dei diritti umani, la repressione e la violazione del principio “un Paese, due sistemi” a Hong Kong. La dichiarazione già citata, sulla stessa linea, del ministro tedesco Maas, che ha azzardato un “alla fine i rapporti tra Cina ed Europa ne risentiranno”.

Fin qui parole, di sanzioni nemmeno a parlarne.

Il passo più concreto però è la proposta dell’Alto rappresentante Ue Josep Borrell di creare un Dialogo Usa-Ue sulla Cina, apprezzata e prontamente accolta da Washington.

Una “svolta”, come l’ha definita Maurizio Molinari su Repubblica? I rapporti con Pechino sono finalmente entrati nell’agenda transatlantica? Sì e no. Diciamo che una riflessione importante sulla Cina sta lentamente maturando in sede Nato. E lentamente anche tra Usa e Ue con il dialogo strutturato proposto da Borrell. Il merito di questi progressi è indubbiamente degli sforzi e delle pressioni, anche brusche nei modi, dell’amministrazione Trump – e ci sono voluti quattro anni…

Ma sul reale significato di questo “risveglio”, di questa nuova consapevolezza europea sulla minaccia cinese, saremmo più cauti. Il “Dialogo” per la diplomazia Ue è spesso inteso come fine a se stesso, una camera di compensazione che serve a smussare gli angoli, ma quasi mai ad elaborare azione politica, mentre gli americani si aspettano l’esatto opposto. La posizione dell’Ue su Pechino è ancora una e trina. Come ha ricordato la presidente Von der Leyen, “la Cina è simultaneamente un partner, un competitor economico e un rivale sistemico che promuove un modello alternativo di governance”.

L’espressione “rivale sistemico”, affiancata per la prima volta nel 2019, è certamente un passo avanti dal punto di vista lessicale. Ma l’Ue ha avuto fino ad oggi un approccio economicistico con la Cina, non sistemico o strategico. In effetti, qualcuno potrebbe pensare che i campi di concentramento e la sorveglianza di massa nello Xinjiang, le minacce a Hong Kong e Taiwan, le provocazioni nel Mar Cinese meridionale (e in generale nel quadrante indo-pacifico), siano dossier lontani dagli interessi strategici Ue, ma sarebbe un errore, date le ambizioni egemoniche di Pechino e i tragici effetti che abbiamo sperimentato su scala globale del suo cover-up sul virus di Wuhan.

Quanto sono sinceri, dunque, i segnali di “risveglio” europeo sulla Cina?

L’Ue a guida tedesca ha investito molto nel rapporto con Pechino, sia dal punto di vista economico che politico, inseguendo l’idea velleitaria (e pericolosa come ripetiamo su Atlantico) di un’autonomia strategica da ritagliarsi proprio nell’equidistanza tra Usa e Cina. Da una parte, non può fare a meno dell’ombrello Nato per la sua difesa (cioè di “scroccare” sicurezza dai contribuenti americani), ma dall’altra la sua economia, e in particolare quella tedesca, è notevolmente esposta alla Cina.

Le dichiarazioni già citate, in cui si esprime “forte preoccupazione” per gli sviluppi a Hong Kong, non devono essere sopravvalutate. Di recente, la cancelliera Merkel ha spiegato che proprio le giustificate preoccupazioni per i diritti umani non sono motivo sufficiente per compromettere i rapporti con la Cina, che anzi vanno preservati ad ogni costo, soprattutto ora che Washington e Pechino sono ai ferri corti. Quasi a voler dire: approfittiamone.

Sarà Berlino a gestire i rapporti dell’Ue con Pechino per i prossimi sei mesi. E non è un caso, naturalmente, che il vertice Ue-Cina di Lipsia, inizialmente convocato per metà settembre, sia stato rinviato. La cancelliera Merkel punta a tenerlo entro fine anno, quindi entro la fine del semestre di presidenza tedesca dell’Ue, ma dopo le elezioni presidenziali americane che si terranno il 3 novembre. La sua ambizione è quella di concludere con Pechino il difficile accordo sugli investimenti bilaterali, riuscendo così a posizionare l’Europa “tra le grandi potenze Cina e Stati Uniti”, e a mettere sul giusto binario i rapporti Ue-Cina prima di dare l’addio al cancellierato e alla vita politica attiva.

Per l’Ue a guida tedesca quindi è il momento di temporeggiare e aspettare di scoprire chi sarà l’inquilino della Casa Bianca per i prossimi quattro anni. Con Joe Biden, infatti, si aprirebbe una prospettiva di progressivo allentamento delle tensioni Usa-Cina e Berlino potrebbe puntare ad un risultato più ambizioso al vertice di Lipsia senza irritare Washington. Fino ad allora, posizioni di inusuale fermezza su Hong Kong e l’ostentazione di un dialogo più stretto con l’amministrazione Trump sulla sfida cinese, possono persino rivelarsi elementi utili, funzionali ad aumentare la leva negoziale Ue in vista delle difficilissime trattative con Pechino a novembre o dicembre. Che Trump sia rieletto o che vinca Biden, ha avvertito nei giorni scorsi il ministro degli esteri tedesco Maas, l’Europa dovrà trovare una propria strada sui temi di politica estera, “anche senza Stati Uniti”.

Bisogna fare i conti con Pechino, però. Anche Xi Jinping sta probabilmente aspettando l’esito delle presidenziali americane di novembre prima di muovere i suoi prossimi passi nelle relazioni con l’Ue. E 29 round di negoziati in otto anni ci dicono che non ha alcuna fretta di raggiungere un accordo sugli investimenti bilaterali. Anzi, forse gli sta bene lo status quo, che nonostante le recenti misure adottate da Bruxelles – le linee guida sulla sicurezza della rete 5G e lo screening sui nuovi investimenti – ancora gli consente di proseguire con il suo approccio predatorio.

Il fatto, osserva Wolfgang Münchau riprendendo un’analisi di François Godement (European Council on Foreign Relations), è che agli occhi della leadership cinese l’Ue è “disperatamente divisa e non sufficientemente strategica” e Pechino sta iniziando a mettere i Paesi europei l’uno contro l’altro.

Proprio Angela Merkel è il massimo esponente della “doppiezza europea”: da una parte, “il suo dichiarato sostegno per una posizione comune dell’Ue sulla Cina”; dall’altra, Berlino “agisce con unilateralismo mercantilista nelle sue relazioni bilaterali”. Mentre ciò che dovrebbe fare l’Ue, è avvertire la leadership cinese che se rifiuta di accordare una piena reciprocità nei rapporti economici e commerciali, ciò porterà al decoupling delle catene di approvvigionamento.

Godement giunge alla stessa conclusione che da tempo noi di Atlantico vi proponiamo sui rischi dell’idea di “autonomia strategica” e di un’Europa equidistante tra Usa e Cina. A Pechino interpretano la discussione europea sull’autonomia strategica non come la prova di un’Europa più unita, più matura e forte, ma, al contrario, come un segno di indebolimento, dato che in questo modo l’Ue si sta allontanando, separando dal principale garante della sua sicurezza: gli Stati Uniti. Lo smantellamento dell’alleanza transatlantica – opera da tempo dell’Ue a guida tedesca, non dell’amministrazione Trump come molti pensano – non è accompagnato da un rafforzamento della difesa europea.