Dispiace per Giuliano Ferrara, che il 9 gennaio su Il Foglio intimava i lettori: “Non raccontatemi che Trump ha fatto anche cose buone”. Perché Trump ha fatto praticamente solo cose buone. Uno storico del futuro, sempre che la storia non sia materia monopolizzata dai progressisti, dovrà riconoscere che quella di Donald J. Trump è stata una delle amministrazioni più di successo nella storia recente degli Usa e sicuramente la migliore del primo ventennio del XXI Secolo. Lo diciamo già oggi, sperando di anticipare i tempi.
È stata una buona amministrazione per almeno quindici validi motivi, che non sono affatto pochi. Prima di tutto per il miracolo economico che ha contribuito a lanciare con la sua riforma fiscale. Quando l’istituto Gallup ha rivolto agli americani la famosa domanda, “stai meglio oggi o 4 anni fa?”, il 56 per cento ha risposto di star meglio oggi. E non è solo un benessere economico. Obama fu il primo a far uscire gli Usa dalle secche della Grande Recessione del 2008, ma il “new normal” (tipica frase usata dalla sinistra per giustificare i suoi fallimenti) era considerato uno scenario di crescita asfittica, dell’1 o 2 per cento all’anno. Con Trump, che ha drasticamente tagliato le tasse ed ha rimosso l’equivalente di 250 miliardi di spesa pubblica tramite eliminazione di regolamentazioni, il Pil americano ha ricominciato a crescere di oltre il 3 per cento annuo. Era dai tempi dei Reagan che non si vedeva un simile miracolo economico. Miracolo che, in concreto, si è tradotto anche in un periodo di piena occupazione, anche a vantaggio delle minoranze ispanica e afro-americana che non avevano mai conosciuto tassi di occupazione così alti nella loro storia (e ciò spiega perché abbiano votato un candidato repubblicano con percentuali mai viste prima).
In politica estera si contano innumerevoli successi, purtroppo mai riconosciuti né dai media, né dalle istituzioni internazionali. Benché il presidente repubblicano non sia stato insignito del Nobel per la Pace, ha mediato con successo quattro accordi di pace in Medio Oriente. Tanto per rendere l’idea della misura del successo: dal 1979 al 1994, gli accordi di pace fra Israele e suoi vicini arabi sono stati appena due, con l’Egitto e con la Giordania. Nel corso della sola amministrazione Trump, sono stati siglati accordi per la normalizzazione delle relazioni diplomatiche fra Israele e: Emirati Arabi Uniti, Bahrein, Sudan, Marocco. I primi due sono Stati piccoli, ma molto vicini all’Arabia Saudita. Possono costituire una premessa ad un accordo, veramente storico, fra la capitale del mondo musulmano e lo Stato ebraico. Il Sudan, realtà tuttora instabile, è comunque lo Stato dove la Lega Araba aveva giurato guerra eterna ad Israele. Una pace col Sudan può anche essere sottovalutata mediaticamente in Occidente, ma ha una valenza simbolica fortissima.
Ancor più importante (e sottaciuto) è l’accordo siglato fra la Serbia e il Kosovo. In 21 anni l’Ue non è riuscita nel compito. Il presidente snobbato dall’Ue perché considerato anti-diplomatico, è riuscito invece a far fare la pace economica a Belgrado e Pristina. Proprio evitando un discorso puramente politico e senza addentrarsi in una discussione infinita per un riconoscimento formale del nuovo Stato, l’amministrazione Trump è perlomeno riuscita a far firmare dalle parti un accordo economico, inclusa la costruzione di infrastrutture comuni. Ed è la premessa per la pace. Anche in questo caso, la diplomazia americana è riuscita anche a portare a casa un altro accordo a favore di Israele, che è stato riconosciuto dal Kosovo, Paese a maggioranza musulmana in cui purtroppo si è radicato il fondamentalismo armato islamico (basti vedere al numero di volontari dell’Isis in rapporto alla sua esigua popolazione). Quindi si tratta di un riconoscimento tutt’altro che scontato, foriero di importanti conseguenze anche nello sviluppo interno del Kosovo, un suo allontanamento dalla galassia islamica radicale.
Questi successi, e arriviamo al quarto valido motivo per rimpiangere l’amministrazione Trump, appaiono ancora più eclatanti se consideriamo che sono stati preceduti dallo spostamento dell’ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme. Tale decisione, presa da più di vent’anni dal Congresso, non era mai stata applicata dai predecessori repubblicani, per timore che scoppiasse un “Armageddon” mediorientale. Trump ha invece avuto il coraggio di riconoscere la realtà per quella che è: Gerusalemme è obiettivamente la sede di tutte le istituzioni di Israele, è la sua capitale e non riconoscerla è un disconoscimento, totale o parziale, della legittimità dello Stato ebraico. Ebbene: anche dopo aver trasferito l’ambasciata a Gerusalemme, non è scoppiato alcun “Armageddon”. Anzi, si sono raggiunti nuovi accordi di pace. Questo vuol dire che il presidente ha fatto il giusto calcolo di rischi e benefici, con gran lungimiranza.
Il quinto valido motivo per considerare l’amministrazione Trump come una buona presidenza, può far storcere il naso a molti, ma va ricordato: il ritiro degli Usa dall’Unesco. Una decisione che è strettamente legata alla questione mediorientale e su cui gli Stati Uniti tacevano da troppo tempo: l’Unesco considera luoghi sacri all’ebraismo e al cristianesimo come siti esclusivamente islamici. La tomba dei patriarchi di Hebron è stata designata dall’Unesco come “patrimonio dell’umanità palestinese”. Abramo, Isacco e Giacobbe, che vi sono sepolti, sono padri dello Stato Palestinese, secondo l’agenzia Onu. È esclusivamente palestinese e islamico, secondo l’Unesco, anche il Monte del Tempio di Gerusalemme, che nella dicitura ufficiale dell’Onu è solo “spianata della moschea di Al Aqsa”, dunque è riconosciuto solo il suo passato musulmano, non quello biblico, non il secondo Tempio dove predicava anche Gesù. Restare nell’Unesco e continuare a foraggiarlo, per gli Usa, era solo una scelta auto-distruttiva, solo un anti-diplomatico come Trump poteva porre fine all’equivoco.
Peggio ancora, un’altra agenzia Onu, l’Organizzazione Mondiale della Sanità, ha seguito pedissequamente le indicazioni e le informazioni fornite dal regime di Pechino sulla nuova pandemia che andava diffondendosi da Wuhan. Se i silenzi della Cina sono oggettivamente la colpa peggiore di Pechino nei confronti del resto del mondo, l’Oms è da considerarsi quantomeno complice nell’aver avallato quell’omertà. Come la scelta di dichiarare, ancora il 14 gennaio, che la nuova malattia non si trasmettesse fra umani. Trump, incassato il danno colossale, ha deciso di troncare il finanziamento all’Oms, soprattutto considerando che gli Usa contribuiscono finanziariamente al suo mantenimento in misura molto maggiore rispetto alla Cina.
Gli Usa, con Trump, si sono anche ritirati dagli Accordi di Parigi, beccandosi insulti dai governi di tutto il mondo. Tanto che la prima misura annunciata da Biden, ancor prima di insediarsi alla Casa Bianca, è quella di riportare gli Usa sotto Parigi. Ma gli Accordi di Parigi sono un veicolo di decrescita, non di crescita. Lungi dallo stimolare un’evoluzione delle tecnologie verdi, imponendo quote per i limiti di emissioni di gas serra, suggerendo l’introduzione di nuove tasse e prescrivendo norme restrittive, incoraggiano la riedizione riveduta e corretta della vecchia pianificazione economica.
Gli Stati Uniti, detto fra parentesi, proprio sotto l’amministrazione Trump, hanno dimostrato di non aver bisogno di accordi internazionali vincolati come quelli firmati a Parigi. Pur senza patire recessioni economiche o crescite asfittiche, gli Usa hanno ridotto sensibilmente le emissioni di CO2, negli ultimi quattro anni, anche al netto dello stop forzato causato dalla pandemia.
Trump è stato accusato da gran parte degli osservatori internazionali di aver voltato le spalle al mondo libero, di essere amico dei dittatori e, sulla falsariga del Russiagate (poi finito in nulla), di essere un uomo di Putin. Però: è stato il presidente più amato dai polacchi, specialmente dopo che ha fatto l’apologia della loro lotta per la libertà ai piedi del monumento dell’insurrezione di Varsavia. Un “uomo di Putin” non avrebbe neppure sfiorato Varsavia. Ha ripristinato la special relationship con il Regno Unito, che invece era stata incrinata da Obama per motivi di fazione. In un periodo difficile di transizione dopo il voto sulla Brexit, gli Usa di Trump non hanno mai abbandonato il loro alleato tradizionale. Nelle cause internazionali, Trump ha sostenuto con azioni concrete (e non solo a parole) i democratici del Venezuela duramente repressi da Maduro, capofila dei governi che hanno disconosciuto la dittatura di Maduro e riconosciuto la presidente di Juan Guaidó. È stato anche uno dei pochi leader occidentali, assieme a Boris Johnson, a difendere l’autonomia di Hong Kong, esercitando pressioni sulla Cina e imponendo nuove sanzioni. Uno dei cavalli di battaglia di Trump, in tutte le sedi internazionali, è stata la difesa della libertà di religione, la prima delle libertà, l’origine di tutte le altre. Ed è stata una difesa seria e concreta, come dimostrano le sanzioni alla Turchia per ottenere la liberazione di un pastore protestante ingiustamente incarcerato e i rapporti sulle continue persecuzioni in Cina, anche ai danni dei musulmani (cosa su cui i Paesi musulmani stessi, ipocritamente, tacciono).
Tutti i presidenti repubblicani sono pro-life, tutti hanno approvato la Mexico City Policy (non foraggiare la promozione dell’aborto all’estero). Ma Trump vi ha aggiunto anche una militanza personale in difesa della vita del nascituro, primo presidente degli Usa a partecipare personalmente alla Marcia per la Vita. Ed ha incoraggiato gli Stati a introdurre leggi sempre più attive nella difesa del feto.
Anche in tempi di pandemia, quando tutto il mondo chiudeva in casa i cittadini e costringeva le attività economiche alla serrata, Trump ha fatto tutto quanto fosse in suo potere per riaprire il prima possibile. E non ha censurato gli Stati che hanno deciso di lasciare liberi i propri cittadini, fidandosi della loro responsabilità. Ciò è servito a ridurre il periodo di crisi al minimo: già a settembre, i livelli di disoccupazione, schizzati al 18 per cento in aprile, si erano ridotti a percentuali vicine al livello pre-crisi, il 6 per cento medio e anche meno in alcuni Stati. Tacciato di “negazionismo” dalla stampa di tutto il mondo libero, è però riuscito ad introdurre per primo il vaccino in tutto il mondo, favorendone una diffusione da record con un’operazione accuratamente pianificata. Attualmente, dopo Israele e il Regno Unito, gli Usa sono primi al mondo per percentuale di popolazione già vaccinata.
Infine, ma non da ultimo, ha sfidato apertamente tutti i cliché del politically correct, compresa la difesa di statue e monumenti del passato americano. Non è una cosa da poco: è stato l’ultimo presidente che si è opposto ad una vera rivoluzione culturale (in senso maoista) che mira a cancellare la cultura del passato dell’Occidente. Potrebbe essere ricordato come un nostro ultimo baluardo culturale, sperando che prima o poi si palesi sulla scena politica un degno successore.