Ormai sembra quasi una carnevalata. Si era partiti con l’inno nazionale e un applauso ai medici e agli infermieri che combattono il coronavirus. Ci si sta pericolosamente avvicinando a un concertone collettivo che sembra ignorare la drammatica crisi sanitaria dell’ultimo mese. Una crisi che finora ha causato quasi 3 mila morti. Tremila. Un numero da ripetere perché serve per rendersi conto della dimensione tragica di queste settimane. No, non abbiamo vinto nessun mondiale. No, non c’è davvero motivo per cantare a squarciagola fuori dai balconi ignorando il dolore di tante famiglie che stanno perdendo i propri cari, magari senza poterli nemmeno salutare per l’ultima volta.
Certo, anche chi vive la quarantena ha bisogno di conforto. Di uno svago per evitare di trascorrere le proprie giornate nell’angoscia e nella paura del virus. È assolutamente legittimo e comprensibile. Ma serve senso della misura. E serve sobrietà. Nei modi, nei toni e nel volume delle canzoni. I balconi non sono un palco su cui esibirsi. C’è poco da festeggiare. Semmai c’è da solidarizzare con medici e infermieri e con chi soffre.
Un conto è cantare l’inno italiano, applaudire lo sforzo di un Paese che si sta riscoprendo Nazione. Un altro è fare concertoni a tutto volume. Organizzare scientificamente balconate, scatenarsi in un canto sguaiato e poi, dopo aver filmato le esibizioni canore collettive, vantarsi sui social quasi fosse Sanremo. Per ottenere una manciata di follower in più. Ancora una volta: non è il festival della canzone e nessuno ha vinto lo scudetto. È una delle crisi più gravi dal Dopoguerra. Il sistema sanitario agonizza, le terapie intensive sono piene e muoiono più centinaia di persone al giorno. Cifre che dovrebbero far accapponare la pelle. Stiamo vivendo un periodo in cui è necessario ascoltare il silenzio. Un silenzio carico di sofferenze, di speranze e magari di qualche preghiera. No, non è proprio il tempo per le carnevalate.