Chi bleffa, Renzi o Franceschini? A quanto pare il piatto in tavola è il rischio di uno scioglimento del Parlamento, che nessuno dei due intende correre, ma mentre Renzi lo considera improbabile, anche in presenza di un sommovimento al vertice, Franceschini lo giudica scontato, pure in occasione di un cambio limitato a qualche ministro di seconda fila. E che il capo-delegazione del Pd non parli a titolo personale è provato da quanto è emerso dalla verifica aperta da Conte, dove sia il Pd che i 5 Stelle si sono espressi fermamente contro qualsiasi rimpasto.
Può ben essere che il gioco abbia al centro solo la famosa cabina di regia, dove a far parte del trio che la governa, accanto a Conte, sono previsti due ministri del Pd e dei 5 Stelle, con conseguente denuncia di Renzi della concentrazione dei poteri a capo dello stesso presidente del Consiglio, tale da comportare la totale emarginazione non solo del Parlamento, ma anche degli altri ministri e dei relativi apparati. Se così fosse, una soluzione compromissoria parrebbe a portata di mano, come conferma la dichiarazione del ministro Bellanova all’uscita dalla verifica, che, cioè, quella cabina immaginata da Conte è ormai accantonata, senza, però, lasciare capire quale sia la soluzione di ricambio.
Conclusione, questa, che ha fatto tirare un respiro di sollievo a tutte le altre componenti della maggioranza, a cominciare dal Pd, che, pur faticando a mandarla giù, non intendeva farne una ragione di contrapposizione a Conte, ormai identificato come il referente d’obbligo di una futura alleanza di centrosinistra, da effettuarsi all’insegna di una legge elettorale proporzionale, che, al meglio, renderebbe Italia Viva del tutto marginale. Certo, ci sarebbe una perdita di faccia da parte dell’avvocato del popolo, ma ben digeribile da uno che del non averla ha fatto la ragione della sua tenuta, ben consapevole che l’essere coerente non fa parte dell’italica credenza.
Solo che non è detta l’ultima parola. Resta il dubbio che per Renzi la cabina di regia sia solo la goccia che ha fatto tracimare l’acqua dal bicchiere, dato che l’elenco delle proposte presentate da Italia Viva, come ultimative prima del ritiro della delegazione, comprende tematiche congelate per la loro capacità di mettere in discussione la stessa sopravvivenza dell’esecutivo, a cominciare dal ricorso al Mes sanitario. Se così fosse, Renzi vorrebbe di più, riferito non tanto al programma, quanto piuttosto all’inquilino di Palazzo Chigi, credendo di poterlo avere senza un passaggio elettorale, che di certo non persegue, ben avvertito che segnerebbe la fine del potere di condizionamento di cui gode, se pur con un gradimento elettorale oscillante intorno al 3 per cento.
Che cosa esattamente voglia resta difficile da capire, se non nell’ambito del continuo logoramento cui Renzi sta sottoponendo Conte, non per fare cadere il Conte-bis, tanto meno sostituirlo con un Conte-tris, ma con una prospettiva del tutto invertita rispetto a quella del Pd, per escluderlo come capo in testa del centrosinistra alla prossima chiamata alle urne, peraltro da realizzarsi all’insegna di una legge elettorale maggioritaria, che permetterebbe a Italia Viva di lucrare una rappresentanza parlamentare più che proporzionale. Al momento la cosa potrebbe andare da un minimo, sottrargli il controllo dei servizi segreti, ad un massimo, affiancargli due vicepresidenti, con a compensazione una accresciuta presenza di Italia Viva nell’Esecutivo, sì da presentarsi con un peso maggiore alla ripartizione del Recovery Fund e alla prossima lottizzazione di alcune centinaia di cariche pubbliche. Una volta raggiunto il semestre bianco, nessuna se pur radicale azione di disturbo potrebbe essere esorcizzata con la minaccia di una fine legislatura, mentre la partita dell’elezione del nuovo presidente della Repubblica potrebbe essere giocata nella prospettiva della approvazione di una legge elettorale maggioritaria finalizzata al varo di una coalizione.
Ora il bluff riguarda il probabile comportamento del presidente della Repubblica, che ciascuno dei due contendenti mostra di considerare compatibile con la propria posizione, cioè tale da essere o meno disponibile a un cambio anche radicale dell’attuale assetto dell’Esecutivo, sì da permettere uno spazio di manovra, per Renzi assai ampio e per Franceschini assai ristretto, prima che lo stesso presidente decida lo scioglimento delle Camere. Ora, a prescindere dagli spifferi circa gli umori che uscirebbero dall’ambiente del Quirinale, si può tranquillamente credere che Mattarella sia seriamente preoccupato della profonda crisi che attanaglia il Paese, sanitaria ed economico-sociale, che certo richiederebbe una stabilità dell’Esecutivo, tanto più oggi, che si è aperta la più massiccia campagna di vaccinazione mai sperimentata; certo non ritiene, comunque, che, anche a prescindere da una nuova legge elettorale, sia possibile condurre una consultazione regolare in una sequenza di lockdown a singhiozzo. Il che basterebbe a renderlo estremamente contrario a sciogliere il Parlamento, quindi abbastanza tollerante rispetto a qualche rimescolamento nel governo che non tocchi il presidente del Consiglio, significhi anche un Conte-ter, uomo di cui Mattarella, democristiano di origine doc, stima proprio per la straordinaria capacità di galleggiamento.
Solo che questo guadagnare tempo da parte dell’abitante del Quirinale, risponde ad un preciso disegno strategico, ispirato in lui – personaggio passato dalla sinistra democristiana al Pd, cui deve la carica ricoperta – da una allergia congenita nei confronti della destra volta a volta esistente, ieri Forza Italia oggi la terna Lega, Fratelli d’Italia, Forza Italia, sempre in attesa dell’affermarsi di una destra “liberale”, come se non toccasse alla gente che vota decidere quale debba essere non solo la maggioranza, ma anche l’opposizione. Il disegno strategico coltivato al piano più alto della Repubblica poggia su una previsione, fra l’altro relativamente facile alla luce della sostanziale stabilità dei sondaggi, cioè di una vittoria di quel centrodestra considerato al limite della correttezza costituzionale, che dunque deve essere imbrigliato a priori. Questo sia tramite la nomina di un successore espresso dalla attuale maggioranza, tale da assicurare una sorveglianza attenta di quella opposta che sembra destinata a sostituirla, sia tramite la messa in sicurezza delle proposte italiane sulla dote comunitaria assicurata del Next Generation Plan, certificate dalla Commissione e già a regime alla scadenza naturale della legislatura nel 2023.
D’altronde, la sua posizione di assoluta copertura del Conte-bis è testimoniata dalla accettazione silente, di per se stessa estremamente significativa, della gestione effettuata per via di un utilizzo ossessivo di quella fonte costituzionalmente borderline, costituita dai decreti del presidente del Consiglio, presentati tramite corpose conferenze televisive, prima di averne dato qualsiasi notizia alle Camere; nonché per mezzo del ricorso sistematico alla questione di fiducia, fatta all’ultimo minuto per tagliar fuori qualsiasi emendamento. Una vera e propria espropriazione del Parlamento, come rilevato amaramente dalla seconda carica dello Stato, la presidente del Senato, senza, peraltro, alcun significativo riscontro nei Palazzi romani. Accettazione silente che si è prolungata fino all’ultima invenzione di Conte, quella di una cabina di regia ad uso personale, destinata a tagliar fuori anche i ministeri, con una evidente tendenza ad accentrare quei “pieni poteri”, addebitati a Salvini per una semplice frase, ma praticati spregiudicatamente da Conte. È stato allora che il bambino di turno, Renzi, ha gridato ad alta voce “il re è nudo”.
Eppure, il nostro compassato presidente della Repubblica ha continuato, nel suo inarrestabile flusso quotidiano di esternazioni, a fare appello all’unità del Paese, come se fosse questa a mancare, e non, invece, quella di una maggioranza in fase di liquefazione, senza che neppure di una sua eventuale moral suasion si sia vista alcuna evidenza percepibile. Se questa è la scena che fa da sfondo alla partita, a bleffare è più Franceschini che Renzi, il quale, fra l’altro, conosce bene il suo uomo, per condividerne il background, quello stesso che lo ha indotto a sceglierlo per lo scranno del Quirinale.
D’altronde, che sia Franceschini a bleffare, lo conferma a contrario quella che considera l’unica alternativa alla minima rottura dell’attuale equilibrio nella maggioranza, ritenuto così debole da poter essere messo a rischio dal più flebile colpo di vento, cioè le elezioni, rappresentate nella prospettiva ottimale di una partita del tutto aperta fra il centrodestra ed un centrosinistra formato da Pd, 5 Stelle, Lista Conte, lista di sinistra, nel nome dello stesso Conte. Come visto è la linea strategica coltivata dal Pd, ma ancora ben lontana da una sua persuasività, perché al momento sa tanto di una ammucchiata per ottenere una somma complessiva di consensi vicina a quella attribuita al centrodestra. Si dia per scontata l’adesione dei 5 Stelle, al termine di una faticosa trasformazione da movimento in partito, con la conferma della sua attuale classe dirigente per via dell’eliminazione del vincolo del secondo mandato, pur a costo di un ulteriore dimagrimento nei voti; resta pur sempre che la “lista Conte” risulterebbe in gran parte non aggiuntiva ma sostitutiva, cioè tale da succhiare elettori non solo ai 5 Stelle, ma anche allo stesso Pd, riducendo un partito a vocazione maggioritaria ad una percentuale intorno al 15 per cento, di per sé tale da non assicurargli la parte di principale azionista. Diventerebbe del tutto evidente la estrema difficoltà del Pd di rappresentare quel centro, che appunto si vorrebbe far coprire alla lista di Conte, senza tener conto che questa stessa è l’ambizione di altre forze in crescendo come, da un lato, Azione di Calenda, e, dall’altro, Forza Italia.
Il centrodestra è perfettamente consapevole dell’assoluta ritrosia di Mattarella a procedere ad uno scioglimento delle Camere, tanto da apparire rassegnato ad una durata della legislatura, destinata a essere chiusa prima della sua naturale scadenza solo da una irreparabile crisi dell’attuale maggioranza e da cercare nel frattempo di perseguire percorsi identitari che caratterizzino ciascuna componente rispetto al proprio potenziale elettorato. Il che riesce più semplice alle due ali della coalizione, da un canto, la Meloni, chiusa a testuggine su una posizione rigida, senza se e senza ma, cioè quella delle elezioni; dall’altro, Berlusconi, aperto su una posizione flessibile, al limite dell’ambiguità, che vorrebbe suonare di garanzia agli occhi di un elettorato moderato. A faticare è Salvini, condannato a stare nel mezzo, con una progressiva erosione del consenso elettorale raggiunto alla vigilia della sua uscita dal governo, privo com’è di un obiettivo traversale quale era la minaccia dell’immigrazione, oggi del tutto marginale per il sopravvenire di ben altre paure. Sì che è costretto a inventarsi un governo di centrodestra, come succedaneo al fallimento di qualsiasi altro proponibile dall’attuale centrosinistra, contando al riguardo su un folto manipolo di transfughi, pronti ad imbarcarsi sull’ultima scialuppa di salvataggio. Il che, però, ha come premessa l’elezione di un presidente della Repubblica simpatetico, cosa di cui Salvini è perfettamente consapevole, tanto di aver dichiarato più volte di avere delle ottime carte da giocare al riguardo.