La prima voce in agenda è inevitabilmente Brexit, ma c’è dell’altro nei programmi che i candidati conservatori stanno presentando alla stampa e agli elettori in queste ore che hanno scandito il via ufficiale alla corsa per prendere il posto di Theresa May come leader del partito e primo ministro britannico. La lista degli aspiranti è stata resa pubblica, lunedì si sono susseguite tre conferenze stampa, altri stanno svelando i loro piani con il passare delle ore, mentre i giornalisti si sono dedicati con molte energie a riportare alla luce alcuni scheletri nell’armadio, legati specialmente all’uso di droghe nel passato dei pretendenti: la più gettonata è la cannabis, ma c’è chi ha ammesso di aver provato sostanze più pesanti, come la cocaina nel caso di Michael Gove e l’oppio per Rory Stewart, con il prevedibile montare di polemiche, che però non possono nascondere i punti chiave di questa campagna elettorale all’interno di un partito in crisi di astinenza di consensi.
Brexit dunque, ma molto altro. C’è chi vede nel 31 ottobre il termine ultimo per concludere il lungo ed estenuante periodo di limbo del Regno Unito; chi pur volendo rispettare la deadline non esclude l’ipotesi di un rinvio per evitare che i Comuni (che a più riprese hanno escluso l’opzione no deal) sfiducino l’Esecutivo, aprendo la strada a nuove elezioni dalle quali potrebbe uscire vincitore il laburista Jeremy Corbyn; chi ribatte che lo stesso ennesimo rinvio spalancherebbe le porte ad un’invasione socialista. La spada di Damocle rappresentata dal Brexit Party di Nigel Farage penzola minacciosa sulla testa dei protagonisti della competizione che allo stesso tempo provano a guardare oltre e a tratteggiare la loro idea di politica interna ed economica.
Tagli alle tasse e sovvenzioni – C’è un’espressione che accomuna i candidati, da quelli dati per favoriti come Boris Johnson agli outsider come Stewart o Esther McVey: to boost, ovvero rilanciare, incrementare, promuovere. Che si tratti del budget per il National Health System, il sistema sanitario croce e delizia di tutti i governi britannici che hanno provato a metterci mano, o del mondo della scuola, con sovvenzioni e finanziamenti statali per coprire la spesa media di ciascun alunno, o ancora della sicurezza interna, con la proposta di assumere più poliziotti nel tentativo di affrontare con maggiore efficacia l’epidemia di accoltellamenti che ha colpito in particolare Londra. O, ancora, di aumentare gli sforzi per la difesa, portandoli nell’arco di dieci anni ai livelli americani come nei piani di Jeremy Hunt, attuale Foreign Secretary, che vorrebbe anche replicare la politica fiscale di Donald Trump, con un netto taglio delle tasse.
Terreno dove deve gareggiare con Sajid Javid. E con un Johnson rimasto per qualche giorno fin troppo silenzioso, prima di salire ieri sul palco per presentare il suo piano con il piglio di sempre, battendo in diverse occasioni il pugno per sottolineare i passaggi più importanti del suo intervento: è il momento, ha detto, di “porre fine all’incertezza debilitante” che imprigiona il paese, rimarcando lo sforzo per non lasciare indietro “nessuna città, nessuna comunità, nessuna persona”, per impedire a Corbyn di avvicinarsi a Downing Street. Secondo un sondaggio pubblicato dal Telegraph, la nomina di Johnson a primo ministro porterebbe i Tories ad ottenere un’ampia maggioranza a Westminster, annientando tra l’altro il Brexit Party e i Liberaldemocratici. “Non ho sottostimato per un istante le sfide a cui ci troviamo di fronte”, ha aggiunto prima di ricordare quelle che ha già vinto come sindaco di Londra: gli scioperi, i disordini del 2011 e l’organizzazione delle Olimpiadi del 2012. E bloccare l’uscita dall’Ue si rivelerebbe un “castigo mortale” per la classe politica.
I grattacapi economici – Gli ultimi dati sul mercato del lavoro indicano che nonostante i dubbi che aleggiano attorno a Brexit il numero di disoccupati continua a far registrare i dati più bassi degli ultimi quarant’anni, con altri 32.000 nuovi posti di lavoro da inizio anno ad aprile e un aumento di 64.000 unità tra i lavoratori autonomi. Per gli analisti si tratta del risultato della strategia da parte delle aziende di puntare più sulle assunzioni che sugli investimenti in attesa di comprendere cosa accadrà da qui a novembre.
Numeri che contrastano con il -2,7 per cento del comparto industriale su base mensile reso noto lunedì, con il forte ribasso del settore automobilistico: al tracollo nella vendita e nella richiesta dei diesel, si aggiungono le voci sulle chiusure di alcuni stabilimenti come quello della Ford a Bridgend calendarizzato per il 2020 o della Honda a Swindon, annunciato già a febbraio non come conseguenza dell’uscita dall’Unione europea, ma come esigenza dettata dai prossimi sforzi sui modelli elettrici richiesti specialmente nel mercato asiatico. Dove ultimamente fatica Land Rover, colpita dalla contrazione cinese.
Altra questione spinosa alla quale dovrà saper rispondere il prossimo primo ministro resta quella energetica. Le politiche ambientali che puntano a ridurre le emissioni di carbonio devono tenere conto delle incertezze che riguardano i destini di due impianti nucleari, a Moorside (in Cumbria) e a Wylfa Newydd (Galles), dove la compagnia giapponese Hitachi ha sospeso un investimento di 20 miliardi di sterline dopo gli sforzi compiuti localmente dalla società Horizon Nuclear Power per formare una nuova forza lavoro.
È solo colpa dello spauracchio Brexit? No, c’entra anche l’inconcludenza della May su molti temi: la propensione ad agire senza prendere una chiara decisione ha ingombrato il tavolo di pratiche da sbrigare che sono poi rimaste ai margini una volta che il suo mandato è stato assorbito dagli sforzi vani di risolvere la crisi sull’addio al blocco europeo. Al prossimo inquilino al Numero 10 di Downing Street spetta un’agenda decisamente piena.