Settimana difficile per la politica estera Usa. Dopo lo scambio a distanza Biden-Putin, di cui abbiamo parlato ieri, lo scontro ravvicinato, a favore di telecamere, tra le delegazioni cinese e americana ad Anchorage, Alaska.
Fino ad oggi ci siamo chiesti che cosa intendesse fare l’amministrazione Biden con la Cina: prevarranno gli elementi di continuità con l’amministrazione Trump, quindi sostanzialmente la linea del confronto, come molti pensano, o invece prenderà piede un tentativo di re-engagement, un reset nelle relazioni con Pechino? Noi di Atlantico tendiamo ancora per questa seconda ipotesi (ribadiamo: non una certezza, una ipotesi) per una serie di fattori su cui torneremo. Ma non ci siamo ancora chiesti se Pechino vuole davvero tornare allo status quo ante Trump, se vuole questa “normalizzazione”, o se invece non abbia aperto anch’essa una nuova fase e, nonostante gli appelli a Washington perché receda dalle politiche della precedente amministrazione, non abbia alcuna intenzione di tornare indietro.
I colloqui di Anchorage – il primo faccia a faccia Usa-Cina ad alto livello della presidenza Biden – ci hanno aperto gli occhi proprio su questo secondo quesito. La risposta è tutt’altro che scontata. D’altra parte, già nei mesi scorsi, nel mezzo della pandemia, avevamo notato un salto di qualità nell’aggressività dell’approccio di Pechino: invece di stare sulla difensiva, era passata all’attacco, nella propaganda sul coronavirus come dal punto di vista economico e persino militare. Sui dossier che considera “affari interni”, come Hong Hong, Xinjiang e Taiwan, ma anche attaccando i suoi vicini (India e Australia) e bullizzando alcuni Paesi europei.
La diplomazia Usa aveva preparato il terreno per rimettere in riga la Cina ad Anchorage, ma si è trovata davanti una Cina tutt’altro che disposta a farsi rimettere in riga, determinata anzi a sfidare apertamente l’autorità di Washington come garante e guida dell’ordine internazionale – e persino le regole di tale ordine.
Secondo l’accordo fra le parti, lo speech introduttivo delle due delegazioni, alla presenza di giornalisti e telecamere, sarebbe dovuto durare 2 minuti, ma è accaduto che dopo gli interventi iniziali del segretario di Stato Blinken (2:27) e del consigliere per la sicurezza nazionale Sullivan (2:17) hanno preso la parola Yang Jiechi, a capo della Commissione Affari esteri del Partito comunista e braccio destro del presidente Xi Jinping per la politica estera, tenendola per oltre 16 minuti, e il ministro degli esteri Wang Yi, per 4.
I due diplomatici cinesi non si sono limitati alle solite accuse di ingerenza negli affari interni cinesi, citando le nuove sanzioni Usa per la stretta su Hong Kong (“non il modo in cui si dovrebbero accogliere i propri ospiti”), o a respingere altre accuse nei loro confronti (gli Usa sono “campioni di attacchi cibernetici”). Hanno approfittato di questi 20 minuti davanti alla stampa per lanciare un duro atto d’accusa nei confronti degli Stati Uniti, un attacco frontale alla loro pretesa di guidare l’ordine internazionale e parlare a nome degli altri Paesi (“non rappresentano l’opinione pubblica mondiale”), ma anche alla loro credibilità come faro di democrazia e diritti umani, con riferimenti espliciti ai problemi interni dell’America.
“Credo che la stragrande maggioranza dei Paesi del mondo non riconosca i valori universali sostenuti dagli Stati Uniti, né che le opinioni degli Stati Uniti possano rappresentare l’opinione pubblica internazionale”, ha detto Yang. Rincarando la dose: “Questi Paesi non riconoscono che le regole stabilite da un ristretto numero di persone possano servire come base per l’ordine internazionale”.
“È importante per gli Stati Uniti cambiare la loro immagine e finirla di promuovere la loro democrazia nel resto del mondo. Molte persone negli Stati Uniti in realtà hanno poca fiducia nella democrazia Usa”.
Alle critiche americane per le violazioni dei diritti umani in Cina, Yang ha risposto osservando che gli Stati Uniti hanno a loro volta profondi problemi di diritti umani ed esortandoli a fare progressi:
“Speriamo che gli Stati Uniti faranno meglio sui diritti umani. La Cina ha compiuto progressi costanti e il fatto è che ci sono molti problemi negli Stati Uniti per quanto riguarda i diritti umani, cosa che è ammessa anche dagli Stati Uniti stessi. (…) E le sfide che gli Stati Uniti devono affrontare in materia di diritti umani sono profonde. Non sono emerse solo negli ultimi quattro anni, come Black Lives Matter. Non è emerso solo di recente”.
A questo punto, i giornalisti avrebbero dovuto lasciare la sala, ma il segretario di Stato, Anthony Blinken, ha chiesto loro di fermarsi per ascoltare la sua replica. Dopo aver fatto notare la violazione del protocollo da parte cinese, è entrato nel merito. E ha spiegato, sottolineando le differenze tra regimi autoritari e democrazie, che tratto distintivo della democrazia americana è “riconoscere le nostre imperfezioni, riconoscere che non siamo perfetti, commettiamo errori, facciamo passi indietro. Ma quello che abbiamo fatto nel corso della nostra storia è affrontare queste sfide apertamente, pubblicamente, in modo trasparente, non cercando di ignorarle, non cercando di fingere che non esistano, non cercando di nasconderle sotto un tappeto. E a volte è doloroso, a volte è brutto, ma ogni volta ne siamo usciti più forti, migliori, più uniti come Paese”.
Quindi Blinken ha concluso la sua replica citando Biden, quando da vicepresidente disse all’allora vicepresidente Xi: “Non è mai una buona scommessa scommettere contro l’America. E questo è vero anche oggi”.
Dopo la risposta americana ai giornalisti è stato chiesto di lasciare la sala, ma Yang si è rivolto direttamente alle telecamere, invitandole ad “aspettare”, ed è stato ancora più esplicito nel criticare l’approccio iniziale della controparte e nel sottolineare la debolezza della posizione americana:
“Bene, è stato un mio errore. Quando sono entrato in questa stanza avrei dovuto ricordare agli Stati Uniti di prestare attenzione al loro tono nei nostri rispettivi speech di apertura, ma non l’ho fatto. La parte cinese si è sentita obbligata a fare questo discorso a causa del tono della parte americana. Non era forse intenzione degli Stati Uniti – a giudicare da cosa, e dal modo in cui avete fatto il vostro speech di apertura – parlare alla Cina con tono di superiorità, da una posizione di forza? Quindi, tutto questo è stato pianificato ed orchestrato con cura, con tutti i preparativi in atto? È in questo modo che speravate di condurre questo dialogo?”
“Quindi – ha incalzato Yang – lasciatemi dire qui che, di fronte alla parte cinese, gli Stati Uniti non hanno la qualifica per parlare alla Cina da una posizione di forza. E non l’avevano nemmeno venti o trent’anni fa, perché non è questo il modo di trattare con il popolo cinese”.
Ora, la questione non è stabilire chi abbia prevalso nel match a favore di telecamere, ma interpretare quello che è accaduto. La buona notizia è che il segretario Blinken ha tenuto botta, decidendo di replicare e soprattutto con la battuta “non è mai una buona scommessa scommettere contro l’America”, anche se come vedremo non sono mancati passaggi di estrema debolezza. La cattiva notizia però è che ciò che è accaduto è potuto accadere perché la Cina si sente forte a tal punto, e ritiene la leadership Usa debole a tal punto, da mandare una sua delegazione su suolo americano con il preciso intento di umiliare i padroni di casa.
Tanto che già poche ore dopo, lo scambio veniva sfruttato da Pechino per la sua propaganda interna: oltre 400 milioni le visualizzazioni sul social Weibo e un fiume di meme sulle dure parole di Yang Jiechi all’indirizzo della delegazione Usa. Emblematico il tweet del direttore del Global Times Hu Xijin:
“Cina e Stati Uniti non si sono mai incolpati a vicenda in modo così aperto e aspro. È la dimostrazione che l’era in cui gli Stati Uniti possono fingere di avere abbastanza potere e parlare con superiorità alla Cina è finita. Devono trattare Pechino in modo equo e rispettoso.”
A prescindere da come Blinken abbia rintuzzato, a inquietare dovrebbe essere il fatto che i cinesi hanno osato tanto giocando fuori casa. D’altra parte, non è che la delegazione Usa fosse arrivata all’incontro per esprimere toni concilianti e i cinesi questo l’avevano capito: le sanzioni individuali varate da Washington pochi giorni prima, il segretario di Stato che poche ore prima aveva ventilato l’ipotesi di un boicottaggio dei Giochi olimpici invernali di Pechino nel 2022, erano segnali fin troppo chiari. E infatti lo speech d’apertura di Blinken non è stato un tenero benvenuto, ma una reprimenda: ha prima spiegato che gli Stati Uniti intendono “rafforzare l’ordine internazionale basato su regole”, senza il quale il mondo sarebbe “molto più violento e instabile”, e ha poi accusato la Cina, con le sue azioni nello Xinjiang, a Hong Kong e nei confronti di Taiwan, così come con i suoi attacchi informatici e la coercizione economica verso gli alleati degli Stati Uniti, di “minacciare l’ordine basato su regole che mantiene la stabilità globale”. Ecco perché “non sono solo questioni interne, e perché ci sentiamo in obbligo di sollevare questi problemi qui oggi”.
Quello che la delegazione Usa non si aspettava è che i cinesi avessero preparato una controffensiva così a 360 gradi a favore di telecamere, non limitandosi a difendersi dalle accuse americane, ma mettendo in discussione l’autorità stessa degli Stati Uniti di dare lezioni agli altri e di stabilire le regole dell’ordine internazionale. E si è trattato di un errore di valutazione di Blinken non prevedere che la controparte cinese potesse essersi preparata a rispondere per le rime, offrendo ai cinesi l’occasione per una strigliata senza precedenti ad una delegazione Usa di così alto livello davanti alla stampa.
La replica del segretario di Stato, inoltre, è sembrata troppo sulla difensiva, di fatto accettando che i presunti “peccati” dell’America fossero sul tavolo, oggetto di discussione. Cosa ha risposto Blinken a Yang quando ha accusato gli Stati Uniti di essere un Paese razzista che viola i diritti umani? “Però ammettiamo i nostri errori e ci stiamo migliorando”… E nemmeno una parola sulle responsabilità criminali di Pechino nella diffusione del coronavirus, sul cover-up, la censura e il rifiuto di cooperare nelle indagini sulle origini del virus.
La conferma che a indebolire gli Stati Uniti (e l’Occidente) di fronte ai suoi rivali strategici è il progressismo nella sua deriva woke, la vergogna di sé, l’autodafè espressi nella cancel culture. È questa purtroppo l’ideologia quasi ufficiale oggi in America, che si sta rivelando un’ottima arma in mano ai regimi autoritari per attribuire agli Stati Uniti ogni nefandezza e, così facendo, cercare di porsi sul loro stesso piano. Se per anni non fai che spiegare quanto l’America sia cattiva, la sua storia piena di efferatezze e sopraffazioni, se racconti la bufala del “razzismo sistemico”, puoi aspettarti che il tuo avversario userà questi argomenti woke contro di te, quando gli rimprovererai il trattamento riservato agli uiguri. La fiducia in se stessi, la consapevolezza dei traguardi della propria civiltà, è una risorsa strategica nelle relazioni internazionali.
Infine, sul piano più squisitamente politico, Yang ha smascherato il bluff con cui Blinken ha cercato di irretire la controparte cinese.
Il fulcro della nuova strategia dell’amministrazione Biden nei confronti della Cina, e principale fattore di discontinuità rivendicato rispetto alla presidenza Trump, è il recupero del rapporto con gli alleati. Il segretario di Stato ha vantato una nuova, più stretta e rinvigorita collaborazione con gli alleati, sottolineando che nelle chiamate con “quasi 100 controparti”, e nelle sue prime visite, citando quelle in Giappone e Corea del Sud, “devo dirvelo”, “ho sentito profonda soddisfazione per il ritorno degli Stati Uniti, per il fatto che ci siamo impegnati nuovamente con i nostri alleati e partner. E ho sentito anche profonda preoccupazione per alcune delle azioni che il vostro governo ha intrapreso”.
Se Blinken ha voluto intendere che è pronto a stringersi una sorta di cordone sanitario intorno alla Cina, nel caso in cui non si comporti bene, la delegazione cinese non ci è cascata minimamente. In realtà, il coinvolgimento di alleati e partner in una strategia comune verso Pechino è ancora poco più che un’intenzione e Yang ha avuto gioco facile a prendersene gioco. Non esiste ancora, e non sappiamo dire se mai esisterà, un fronte compatto di democrazie decise a contrapporsi all’ascesa della Cina, a fare gioco di squadra per affrontare le singole sfide poste dalle politiche sempre più aggressive di Pechino. Forse su questo l’intesa con Londra è solida, il discorso con Australia, Giappone e Corea del Sud è più avanzato, ma certamente è molto indietro con l’Europa continentale, che ha una posizione molto più ambigua. E l’accordo sugli investimenti Ue-Cina siglato pochi giorni prima dell’insediamento di Biden è un segnale in questo senso: l’Ue vuole trattare in autonomia, senza tutori, giocare la sua partita. Di recente, alla conferenza di Monaco sulla sicurezza, sia la cancelliera tedesca Merkel che il presidente francese Macron hanno declinato in modo esplicito l’invito di Washington a “fare gruppo” nel trattare con Pechino.
Dunque, per tutti questi motivi, lo speech iniziale e anche le repliche della delegazione Usa ad Anchorage sono stati ingenui. Nelle relazioni internazionali si usa spesso il motto “speak softly and carry a big stick“. In questo caso, gli uomini del presidente Biden, Blinken e Sullivan, si sono mossi all’insegna di un pericoloso “speak harshly and carry a small stick”.