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I limiti della sbornia giudizial-attivista: per le riforme riappropriarsi della via elettorale e legislativa

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Ci saranno tempi, modi e luoghi per riflettere adeguatamente sulle ordinanze con cui la Corte costituzionale ha dichiarato inammissibili i tre quesiti referendari più delicati e di maggiore presa sull’opinione pubblica. Una riflessione, però, può farsi fin d’ora sul ruolo che la Corte ha – o meglio: dovrebbe avere – nel nostro sistema istituzionale. Le critiche che sono piovute addosso alla Consulta, specialmente da parte dei promotori dei referendum, hanno dipinto l’alto consesso come un fortino della conservazione dello status quo, come freno delle istanze di progresso cui invece la società vorrebbe dare seguito.

Valutare la fondatezza di questo genere di critiche, specie in assenza delle motivazioni giuridiche delle declaratorie di inammissibilità, è difficile, ma colpisce che esse siano venute dagli stessi soggetti che, negli ultimi anni, hanno invece attivamente coltivato una diversa percezione della Corte, come di un luogo “illuminato”, popolato da quindici saggi – quindici giudici “erculei”, per dirla con Ronald Dworkin – in grado di trovare la risposta giusta a ogni questione difficile, per il solo fatto di operare liberi da pressioni politiche e dalla necessità di accomodare interessi elettorali. A ben vedere, queste opposte percezioni sono accumunate dall’idea di una Corte che adopera il registro tecnico-giuridico solo come mezzo, come meccanismo cioè per presentare in veste neutrale soluzioni invero esclusivamente politiche, che, di volta in volta, possono entusiasticamente approvarsi o aggressivamente criticarsi.

Che la Corte costituzionale, a dispetto del nome, non sia soltanto una “corte” pare un elemento di realtà di cui è possibile solo ingenuamente dubitare (e, d’altronde, le modalità di selezione dei suoi componenti forniscono un indizio chiaro in tale direzione). Che, però, la Corte costituzionale sia soltanto l’ennesimo organo politico, è conclusione cui deve resistersi: si possono criticare gli eccessi e le deficienze di questa o quella sentenza, persino di questo o di quel giudice, senza scadere nel più semplicistico (per non dire facilone) realismo giuridico. Ci si potrebbe certo interrogare sull’individuazione di strumenti utili a controllare razionalmente le decisioni della Corte, al fine di verificarne l’adeguatezza rispetto a un parametro giuridico e non alle simpatie politiche del momento (uno di questi potrebbe venire da una riflessione sulle tecniche interpretative, le quali – come ha osservato Ernst-Wolfgang Böckenförde – presuppongono una discussione sul concetto e sulla teoria della costituzione). Non è questa, però, la sede anche solo per tratteggiare per grandi linee lo spunto in parola.

Quello che, invece, può tentarsi in questa sede è speculare su una possibile conseguenza delle ordinanze di rigetto: ossia la “smitizzazione” della Corte (e, in generale, dell’ordinamento giudiziario) come il più affidabile e preferito veicolo di promozione del cambiamento sociale. Se pare difficile superare d’emblée il modello cosiddetto “collaborativo”, in cui, semplificando, l’istituzione giudiziaria è parte attiva del processo di riforma politica, è quantomeno possibile frenarne gli eccessi più vistosi ed evitarne i rischi più insidiosi. Su questi ultimi ha attirato l’attenzione, di recente, proprio il vicepresidente della Corte costituzionale, Nicolò Zanon, il quale ha a tal proposito recuperato una lungimirante pagina di Gianfranco Miglio, nella quale si legge che l’impianto in parola “si basa sul convincimento che l’idea della divisione dei poteri dovrebbe essere superata dall’altra, della collaborazione fra gli stessi. Convincimento del tutto infondato, se è vero che un meccanismo veramente garantista presuppone non solo la divisione ma addirittura l’antagonismo dei poteri. Infatti, una volta imboccata la via delle reciproche comprensioni fra controllori e produttori degli atti da controllare, il rigore e la prontezza della verifica della legittimità diventano un pio desiderio”.

In altre parole, riscoprire la vocazione “contro-maggioritaria” della Corte può costituire uno sviluppo positivo, da seguire con attenzione. Va da sé che non può escludersi che – anche per un senso di smacco, determinato dalle reazioni di questi giorni – la Corte superi invece ogni remora “contro-maggioritaria” e si converta al “maggioritarismo” più limpido. Se questo non dovesse accadere (come è augurabile), la domanda più scontata da porsi è: che ne sarà delle istanze di riforma sociale e politica? La risposta, ovvia, persino scontata, eppure non banale è che sarà necessario riscoprire le virtù del circuito elettorale e democratico, o, per citare Jeremy Waldron, la “dignità” del processo legislativo.

La via politico-parlamentare è faticosa e può essere – anzi, il più delle volte è – frustrante, e persuadere i propri pari non è certo rapido come utilizzare lo Spid; tuttavia, si tratta ancora dell’unico modo in grado di consentire una diffusa partecipazione al processo decisionale e di garantire una maggiore adesione all’esito innovatore che risulterà, in definitiva, più stabile e duraturo. Tutte le battaglie vinte sono state originariamente promosse da gruppi minoritari che hanno saputo dimostrare disciplina, organizzazione e capacità persuasiva, al punto che – come ha autorevolmente osservato Adrian Vermeule – il vero limite che questi incontrano è la “povertà dell’immaginazione politica”, ben esemplificato dal consolatorio e auto-assolutorio “tanto non succederà mai”. Proprio a causa delle difficoltà che la mobilitazione porta con sé, quei gruppi minoritari hanno, nel più recente passato, pensato di reindirizzare le proprie domande riformatrici verso un giudice simpatetico, nella probabilistica speranza che convincere una o tre o otto persone (a seconda dell’ampiezza del collegio giudiziale) sia più facile e veloce che convincerne migliaia o milioni.

Quanto accaduto in questi giorni ha mostrato la fallacia di questo modo di ragionare, e invita a “riappropriarsi” di una voce politica che è anzitutto pressione sui partiti che si sentono più affini ai propri ideali e alle proprie visioni del mondo, e che vanno “infiltrati” e conquistati. Non c’è nessuna assicurazione di successo, non c’è nessuna certezza di sconfitta. Per concludere con un’immagine, è ora di bussare alla più vicina sezione politica (magari aprirne una) e non alla cancelleria del tribunale circondariale.

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la grande bugia verde