Un conflitto serio, raccontato però non seriamente da quei professionisti della situation comedy più che della informazione che si sono messi in ginocchio per ossequio all’ultimo rito della ideologia liberal
Se i generali tendono a combattere sempre la guerra precedente, commentatori e giornalisti non scherzano in quanto a pigrizia intellettuale: spesso stentano a recepire le novità, i punti di svolta storici, preferendo adagiarsi su copioni non aggiornati. Accade anche nelle narrazioni delle attuali “proteste” negli Stati Uniti, arrivate ieri anche in Europa. Negli approfondimenti televisivi e sulla grande stampa prevale un modo di raccontare le vicende che sembra ripetere le battute di un film su Martin Luther King. Ma i tempi sono cambiati e sono cambiati anche gli strumenti che contribuiscono ad elaborare la percezione della realtà.
Che alla testa dei moti americani non vi sia un reverendo King è evidente: nessuna elaborazione teorica, nessuna critica motivata, nessuna spiegazione del perché le folle insorgano oggi contro Trump per l’uccisione di un afro-americano, mentre non vi fu alcuna significativa reazione di piazza quando negli ultimi mesi di presidenza Obama si verificò una vera e propria falcidia di cittadini americani di colore.
Ma a parte questa palese inconsistenza di motivazioni, il fatto nuovo è costituito dall’occhio che guarda i dimostranti. Ancora negli anni Novanta certi fenomeni sociali potevano essere presentati in maniera “angelicata” dalle grandi centrali di informazione, ma dal Duemila la novità è rappresentata dall’anarchia informativa del web che infrange i monopoli comunicativi e mostra le immagini se non “proibite” quantomeno trascurate.
A subire l’impatto di questa svolta mediatica fu prima la “destra”: la narrativa delle armi chimiche di Saddam fu vivacemente contestata dalla rete e l’astro di Barack Obama fu reso brillante dalle condivisioni di Facebook.
Poi, dopo otto anni di presidenza Obama la rete cominciò a ribollire di umori inaspettati. Accompagnato dai suoi cinguettii Twitter, Trump fece la sua scalata al cielo. I liberal ne furono angosciati: i nuovi strumenti di informazione stavano remando contro di loro. “A che serviamo noi giornalisti…” si lasciò sfuggire una iconica e a suo modo schietta Botteri, nelle ore calde della vittoria del più improbabile di tutti i candidati presidenziali.
Seguirono le proteste dei seguaci della Clinton, ma mentre i commentatori televisivi cercavano di dare dignità politica a quella protesta contro l’esito di una elezione democratica, le bacheche di Facebook e di Twitter pullulavano allegramente di video che mostravano la realtà di quei dimostranti: grida isteriche, reazioni tra il prepotente e l’immaturo. Infanti politici che strillavano perché non avevano avuto il giocattolo che pensavano gli spettasse per diritto di desiderio.
Oggi la storia si ripete: i grandi media ci parlano di una protesta “dei diritti civili” contro Trump, di un Paese in sofferenza per l’eterno razzismo. Ma i video che circolano sui social network ci mostrano saccheggi, giovanotti in fuga con pacchi di prodotti griffati, scene di lotta di classe tra un lumpenproletariat immiserito dal lockdown e la categoria dei commercianti. Un conflitto serio, raccontato però non seriamente da quei professionisti della situation comedy più che della informazione che si sono messi in ginocchio per ossequio all’ultimo rito della ideologia liberal.