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I presidenzialisti avevano (e hanno) ragione

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Il cammino verso il nuovo governo italiano continua ad essere caratterizzato da un passo in avanti e tre passi indietro. L’iter non smette di avvitarsi su se stesso grazie ai veti incrociati apparentemente impossibili da superare. Di Maio non vuole Berlusconi, Salvini non vuole il Pd, Berlusconi manda Di Maio a pulire i cessi e Mattarella, per quanto pacioso sia, sta probabilmente perdendo la pazienza. Questo complicato rebus, che non ha molti precedenti in un’Italia pur contrassegnata sovente dall’instabilità e dalla confusione politica, è dovuto anzitutto a tre aspetti. Gli effetti perniciosi del Rosatellum scritto con i piedi, il dilettantismo dei vincitori e le furbizie degli sconfitti del 4 marzo scorso. Vediamo ora cosa potrà realizzare Fico, ma c’è comunque dell’altro!

Altre ragioni ormai completamente e colpevolmente ignorate dalla politica e dall’informazione. Le storture dell’attuale legge elettorale sono più che evidenti, ma quand’anche votassimo con una legge migliore del Rosatellum, non risolveremmo del tutto i nostri problemi e questo perché, considerate le condizioni della democrazia italiana, non è sufficiente varare ogni tanto un “ellum” nuovo, bensì occorre mettere mano alla Costituzione che non è la più bella del mondo e riformare quindi le istituzioni repubblicane, privilegiando possibilmente forme di democrazia diretta presidenziali o semi-presidenziali. Mai nessuno ha fatto qualcosa di utile in questo senso, ma almeno la questione rivestiva, fino a non molti anni fa, una certa popolarità nel dibattito politico e visto il buon funzionamento della democrazia diretta negli enti locali, non mancava una certa volontà di trasferire a Roma il sistema di elezione di sindaci e governatori di Regioni.

Oggi, ahinoi, la necessità di riforme profonde per una Repubblica parlamentare piena di rughe e di crepe, pare non interessare più a nessuno. Eppure si tratta di un punto fondamentale da non dimenticare se si vuole uscire dai pasticci. Una buona legge elettorale, meglio se in grado di semplificare il quadro politico, può aiutare, così come una certa solidità dei partiti, ma se le istituzioni sono deboli e ricattabili anche dalle formazioni minori, sarà sempre faticoso formare i governi oppure permettere al vincitore di attuare pienamente il proprio programma. Gli esempi sono così evidenti da non poter essere ignorati, ma l’Italia soffre di amnesia. Sarebbe stato opportuno rinnovare la Repubblica sin dal 1994 perché anche quando si conosceva subito il vincitore, grazie al Mattarellum e all’alternanza Polo-Ulivo, non c’era l’applicazione delle promesse elettorali, un po’, senz’altro, a causa della serietà intermittente dei premier di allora, da Berlusconi a Prodi, ma spesso per il ricatto esercitato dai vari soggetti, piccoli e grandi, delle coalizioni.

Dopo le politiche del 2013 e quelle di quest’anno abbiamo davvero toccato il fondo per quanto riguarda l’efficienza della democrazia, non solo non mantenendo stabili i governi, ma non riuscendo nemmeno a formarli. La cosiddetta Prima Repubblica, pur con i governi balneari, aveva tutto sommato un suo equilibrio, mantenuto dai partiti di allora che possedevano una solidità maggiore rispetto a quelli odierni. La sedicente Seconda Repubblica, sebbene intossicata da un’inconcludenza che infatti ha lasciato solo macerie, per un po’ si è retta sulla leadership berlusconiana che ha costretto gli anti-Silvio a compattarsi in una coalizione alternativa. L’improbabile Terza Repubblica è il pasticcio immondo di questi giorni. Descrivendo in pillole la storia repubblicana d’Italia si evince chiaramente come il funzionamento della macchina democratica sia progressivamente peggiorato, anno dopo anno, stagione politica dopo stagione politica e tutta la classe dirigente dell’ultimo ventennio almeno, si porta dietro una grave responsabilità per aver eluso le riforme o aver provato a farle, ma malissimo e a spizzichi e bocconi. I protagonisti del momento, soprattutto i vincitori e i vinti che arrivano dalla Seconda Repubblica, non si lamentino poi più di tanto delle difficoltà attuali perché esse sono il frutto degli errori e degli orrori della gestione politica post-Tangentopoli. Dobbiamo arrabbiarci di più con il potere giunto dopo le rivelazioni di Mario Chiesa che diedero inizio al crollo di DC e PSI che con quello preesistente. Prima degli anni Novanta non esistevano francamente le condizioni per una grande riforma della Repubblica, essendoci una democrazia bloccata sia a destra che a sinistra, ma dopo, la voglia di nuova repubblica divenne maggioritaria e si poteva in tutta serenità rinnovare il vecchio sistema parlamentare senza far gridare al pericolo sudamericano.

Tuttavia, nulla di importante si è mai mosso e nonostante la natura iniziale del centrodestra, presidenzialista con AN, federalista con la Lega Nord di Bossi e liberale-riformista con Forza Italia. Il semi-presidenzialismo alla francese aveva addirittura persuaso alcuni settori della sinistra, ma tanto i sinistri quanto i destri si sono persi successivamente in altre faccende. E pensare che alcuni leader del passato, ormai quasi remoto, furono piuttosto lungimiranti nel sostenere un possibile cambiamento verso la democrazia diretta. Leader di culture politiche anche molto diverse fra loro, ma accomunati dall’intelligenza di capire che il sistema dei partiti imperniato attorno alla DC, per quanto longevo, non sarebbe durato sino alla fine dei tempi e prima o poi l’Italia avrebbe avuto bisogno di un’altra struttura istituzionale per reggere l’urto dei mutamenti. Bettino Craxi, Giorgio Almirante, alcuni esponenti del vecchio PLI e Marco Pannella con la rivoluzione americana delle istituzioni, immaginavano il futuro. Purtroppo abbiamo cambiato molte sigle di partiti e coalizioni, senza modificare l’essenza della Repubblica, tant’è che Prima, Seconda e Terza Repubblica sono di fatto solo semplificazioni giornalistiche.

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