Lo slogan, postumo, della luminosa campagna per le amministrative del centrodestra potrebbe essere: i sogni nel cassonetto. E non solo a Roma. Anzi. Dabbenaggine o peggio? Viene da sospettare che ci sia del metodo in un simile rosario di errori e di autogol. Dai candidati fantasma al rifiuto dei leader di mettersi in gioco, dall’adesione pressoché acritica alla sudditanza europea, alla sostanziale indifferenza per i costi delle transizioni ecologiche truffaldine, per la marea montante di tasse, fino all’incapacità, diciamolo anche questo, di mandare segnali chiari su contenuti chiari. I casi Fidanza e Morisi hanno inciso? Ma no, non facciamone un alibi, quelli sono dettagli, gestiti male fin che si vuole ma di poco o nessun peso nelle convinzioni di un elettorato che si è semplicemente stufato di legittimare col voto una condizione di estraneità e di indifferenza. Mettiamoci anche che, in una coalizione di tutti dentro, o a lato, i cittadini non capiscono per quale motivo un sistema dovrebbe arrivare a sabotare se stesso.
Difatti una delle ragioni dell’astensionismo a destra è proprio questa: ma se questi stanno al governo, e io non credo in questo governo delle restrizioni, degli obblighi insensati, delle vessazioni paranoidi, del sovvenzionalismo di sinistra, allora che li voto a fare? Per lasciarceli meglio di prima? Che è come dire: la sensibilità potenzialmente maggioritaria nel Paese, quella angosciata per le urgenze concrete, non per le pippe mentali del politicamente corretto o dell’identità gender, non trova una rappresentanza e a questo punto non la cerca più. Si è stancata di pescare dal cesto mele puntualmente bacate o insapori.
Non sono milioni di nostalgici di Salò o delle leggi razziali, questa è una vigliaccata che solo la oliata propaganda di sinistra può permettersi di alimentare. Sono uomini qualsiasi, poveri cristi e poveri diavoli che non riescono più a tirare la carretta e si aspetterebbero se non un aiuto almeno la libertà di provarci. Invece le viene impedito da un sistema che si riscopre liberale a parole ma dirigista nelle scelte. Non sono solo le periferie dei diseredati, sono anche le botteghe, le piccole attività, i sogni umili e coraggiosi di chi è a un passo dal raggiungere i diseredati e non capisce perché non trovi nessuno che si preoccupi di semplificargli la vita, di aprirgli le gabbie di una burocrazia sempre più corrosa, di un legalismo perverso, di un sistema fiscale infame, di un eterno pregiudizio verso chi lavora e rischia in proprio. Cose dette e ridette, siamo d’accordo, ma non è colpa nostra se più le ripetiamo e meno vengono considerate. Siamo all’anno zero, inchiodati a un regime paternalistico dove un generale incaricato di raggiungere l’immunizzazione di massa per imporre surrettiziamente il lasciapassare, che non lascia passare niente, dice: ma sì, il vaccino è solo un po’ di virus. E dimostra di non conoscere minimamente l’oggetto della propria missione.
Detto più chiaramente, non è questione di dissociarsi da un fascismo finito quasi ottant’anni fa, ma di trovare anche da noi una Thatcher. Una che abbia il coraggio e l’abilità di sposare un liberalismo pragmatico, non ideologicamente incrostato. Il guaio è che a cercarla non ci provano nemmeno. Quali sono i partiti allergici a una certa idea di Stato pervasivo, onnipresente? Quali i leader in grado di rendersi conto che non è questione di appellarsi a un nazionalismo senile, dai sapori patetici o cabarettistici, ma di capire quanto racconta Federico Rampini nel suo nuovo saggio “Fermare Pechino”? E cioè che ogni smania di autodisprezzo, ogni vezzo di riconsiderare la storia occidentale come una storia di stragisti e di criminali, indebolisce nelle fondamenta un continente, e per quanto ci riguarda un Paese, che la Cina sta colonizzando non solo sul versante economico quanto su quello mentale o, se si preferisce, filosofico. La Cina, è Rampini a precisarlo, è un continente, quello sì, schiettamente razzista e di un razzismo orgoglioso, che non ammette discussioni; c’è una identità nazionale che non considera altera pars e, anche nei cittadini sparsi per il mondo, percepisce chi li ospita come esseri inferiori che prima o poi dovranno rassegnarsi, venire assoggettati e piegarsi al curioso impasto di confucianesimo, comunismo e superliberismo tecnocratico. Pechino fa leva proprio sulle pulsioni autodistruttive dell’Occidente per fare breccia e, in verità, ci riesce fin troppo agevolmente.
Ecco perché da noi servirebbe una Thatcher. Qui di lady di ferro non si scorge traccia e neanche di mister, se è per questo. E se per caso ci sono, si provvede a isolarli, a strozzarli in culla. Ma se c’è una cosa che il pessimo esito della consultazione amministrativa per il centrodestra ha confermato, è che a non votare sono stati anzitutto (ma non solo) i ceti bassi o infimi, i disgraziati degli hinterland, delle cinture suburbane infernali. Sono tutti voti persi per la destra, che oggi si ritrova il fardello di rappresentarli e si direbbe faccia di tutto per scrollarselo dalle spalle.