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I vescovi lontani dal Vangelo, non i no-vax: quando Gesù “guarì” il lebbroso

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Man mano che la campagna vaccinale portata avanti dal governo italiano in maniera sempre più “forzosa”, anche se dietro l’apparenza della scelta “volontaria”, procede verso traguardi ancora ignoti (terza o quarta dose? emergenza limitata a due anni o prorogata?), si susseguono le condanne (per usare un eufemismo) delle persone che non condividono la politica sanitaria, anche solo per il fatto che si basa sulla costrizione e non sulla scelta responsabile. Alle reprimente degli intellettuali, degli opinionisti, delle piccole e grandi star dello spettacolo e dei social, a quelle (cosa più grave) dei massimi rappresentanti delle istituzioni, il presidente della Repubblica e il presidente del Consiglio, nonché dei politici di quasi tutte le parti, si sono unite da ultimo le dichiarazioni della Conferenza episcopale italiana.

La Cei ha affermato, in maniera non esplicita, ma comunque chiara nel suo riferimento a coloro che non condividono la scelte sanitarie del governo, che “tali comportamenti e discorsi hanno espresso una visione della persona umana e dei rapporti sociali assai lontana dal Vangelo”. L’affermazione merita alcune riflessioni, anche se le stesse ci porteranno, con tutto il rispetto, a conclusioni diverse da quelle che sono state espresse dai vescovi.

Oggi non è molto di moda prendere i Vangeli come pietra di paragone per esaminare e valutare le politiche pubbliche, ma il farlo è invece una cosa molto utile, perché nei Vangeli, oltre ovviamente ai principi fondamentali, quelli relativi al rapporto tra Dio e gli uomini, sono contenute anche alcune regole di saggezza pratica e di buon senso che riguardano i rapporti umani, relativi non solo alla vita privata, ma anche a quella pubblica. Uno dei peggiori servizi che si possono fare sia a coloro che li hanno scritti sia a colui che ne è il protagonista, è considerare i Vangeli come un insieme di affermazioni ideali, molto astratte, che contengono delle regole “eroiche”, fatte per superuomini morali e che quindi sono destinare ad essere messe da parte nella vita privata e pubblica di tutti i giorni.

Non tanto dalle affermazioni generali espresse da Gesù, che spesso secondo l’uso rabbinico sono solo dei paradossi, fatti per far riflettere gli ascoltatori (“chi non odia suo padre non è degno di me”), ma soprattutto dalle parabole da lui narrate e dagli episodi della sua vita emergono infatti una serie di “perle di saggezza”, alcune delle quali riguardano in particolare il modo con cui nella vita privata e pubblica si dovrebbero affrontare la malattia e soprattutto la paura della malattia. Anche qui occorre fare una premessa: con tutto il rispetto per gli studiosi “tradizionalisti”, personalmente penso che possiamo comprendere meglio i racconti sulla vita di Gesù e sul suo rapporto con la malattia se rinunciamo a credere che possedesse una sorta di “superpotere”, e fosse capace di guarire fisicamente con un tocco della mano o con un soffio. Da questo punto di vista i Vangeli sono più simili a romanzi che a cronache, e nel loro testo cercano di esprimere in maniera “immaginifica” la realtà, indescrivibile a parole, di un uomo non diverso da tutti gli altri – fuorché nel peccato, come si usa dire – nel quale si è incarnata la Parola di Dio.

Le epidemie sono sempre esistite e purtroppo sempre esisteranno: uno dei grandi pregi della civiltà occidentale è di avere creato la medicina moderna, grazie ai cui principi e alle cui tecniche milioni di persone in tutto il mondo sono state strappate ad una fine prematura e spesso piena di sofferenze. Nel mondo mediterraneo antico certe malattie erano diventare endemiche e covavano sempre “sotto la cenere”, pronte ad esplodere quando la natura o il comportamento umano creassero una anche piccola causa scatenante. Per combattere queste malattie le società antiche avevano elaborato una serie di regole preventive, in genere derivate dal buonsenso, che dovevano servire a “monitorare” nei casi concreti il possibile riaccendersi (o la diffusione) di una malattia epidemica, cercando di bloccare sul nascere il possibile dilagare dei contagi.

Il legame delle regole mediche con quelle religiose che era tipico di tutte le società antiche, inoltre faceva sì che la loro applicazione fosse lasciata soprattutto ai sacerdoti dei vari culti, e la stessa alternativa tra stato di salute e stato di malattia veniva descritta in termini religiosi come l’alternativa come “stato di purezza” nel primo caso e “stato di impurità” nel secondo. Con l’andar del tempo però quelle che in origine erano solo delle regole preventive di buon senso dirette ad impedire ai sani di ammalarsi tendevano ad essere applicate non solo meccanicamente, ma in maniera sempre più oppressiva anche al di là delle originarie giustificazioni: ciò un po’ per lo scrupolo e lo zelo eccessivi dei sacerdoti, un po’ per la tendenza umana ad accrescere il proprio potere, a volte anche per motivi poco nobili. Questo aveva portato a ricomprendere automaticamente nella categoria degli “impuri” persone che, in base a un giudizio di buonsenso, si sarebbero potute benissimo considerare non a rischio di contrarre la malattia, con la conseguenza che tali persone dovevano sottoporsi alle rigide regole che giungevano fino ad escluderle dalla vita sociale.

Questa era ad esempio la situazione della cura e della prevenzione della lebbra nella Palestina del I secolo. La lebbra in senso stretto si diffondeva ad ondate e purtroppo la stessa era difficilmente curabile, ma oltre a ciò esisteva un importante problema sociale, quello di tutte le persone che presentavano solo piccole alterazioni cutanee (eczemi, psoriasi ecc.) che secondo le regole del libro che noi chiamiamo Levitico (capp. 13 e 14) erano considerate in via preventiva come lebbrosi, e venivano in sostanza escluse da ogni contatto umano e poste ai margini della società. Leggendo il famoso episodio raccontato dal Vangelo di Marco (cap. 1, vv. 40-44) nel quale Gesù guarisce uno di questi “lebbrosi” e, intimandogli di non dire nulla, lo invita a presentarsi ai sacerdoti perché dichiarino il venir meno della sua “impurità”, possiamo ragionevolmente ritenere di essere di fronte al caso di un persona che era stata allontanata dalla comunità e costretta a vestire dei panni particolari solo a causa di qualche piccola malattia della pelle, un caso nel quale un giudizio di buon senso avrebbe quasi certamente escluso un pericolo di contagio della lebbra vera e propria.

Se letto in quest’ottica (come detto con tutto il rispetto per i tradizionalisti) il miracolo di Gesù si trasforma da evento fisico (modifica della situazione corporea) in qualcosa di forse ancora più importante: la modifica della mentalità, del modo con cui confrontarsi con le malattie e le epidemie, e in un certo senso rappresenta un invito a ritornare al significato proprio di molte regole, che nate come prescrizioni di buonsenso, venivano applicate con la presunzione (nel senso etimologico di pre – supporre) di considerarle assolute, quasi facendo a gara ad adempiere (spesso solo in teoria) alle loro prescrizioni nella maniera più restrittiva possibile. In questo senso l’invito ai sacerdoti a dichiarare “puro” il lebbroso suona come un invito a tornare al buon senso originario nell’applicare le regole di prevenzione della lebbra: “Non sono venuto ad abolire la legge, ma a compierla”.

So di avere trascurato il significato fondamentale dell’episodio (e questa volta mi scusino tutti gli studiosi del Vangelo) che è quello della liberazione dal peccato, espresso dalla condizione di impurità, ma come detto il mio discorso si limita a considerare i principi relativi alla vita civile che dallo stesso si possono ricavare. In questo senso, già da decenni alcuni studiosi, ad esempio l’irlandese trapiantato in America J.D. Crossan (n. 1934), appoggiandosi sulle ricerche dell’antropologia culturale riferite alle malattie, hanno distinto tra malattia fisica in senso stretto (disease) e disagio (illness) individuale e sociale causato dalla prima, ed hanno affermato che i miracoli di Gesù non tanto curavano dalla prima, ma piuttosto insegnavano come affrontarla guarendo invece il secondo, e lo guarivano indicando la strada da seguire, quella della continua verifica delle proprie posizioni e del rispetto della situazione personale altrui, una strada priva di eccessi di zelo e priva di pre-supposizioni, se vogliamo una strada “liberale”.

In una recente intervista l’ex ministro Antonio Martino ha affermato che “Il Padreterno è il più grande liberale”. Se per liberalismo si intende un atteggiamento umile nei fatti (a parole lo sono tutti), capace di imparare dai propri errori, sempre lontano dai dogmi e dagli eccessi (sanitari, ma anche economico – politici) e sempre rispettoso delle scelte altrui quando esse riguardano la vita personale e non impongono nulla agli altri, se per liberalismo si intende questo, allora credo che (cioè, ho fede che) il maestro di Nazareth, incarnazione vivente della Parola di Dio, gli avrebbe detto bonariamente: “Non sei molto lontano dalla verità”.

In questi giorni, dove si resta impressionati a sentire “persone della strada” in genere miti e buone invocare punizioni esemplari sui malvagi insensati che sono contrari alle restrizioni vaccinali, dove le decisioni del governo sono sempre meno legittimate democraticamente (predisposte da pochi e approvate dal Parlamento a colpi di voti di fiducia quando già in vigore da tempo), e sembrano non trovare alcun limite al loro contenuto e alla loro durata, solo un cambiamento di mentalità potrebbe risolvere la situazione.

Ci vorrebbe un miracolo capace di modificare il modo con cui nel nostro Paese si è affrontata sin dall’inizio la malattia (disease) da coronavirus, un miracolo capace di modificare la mentalità e por fine al disagio sociale (illness) che la stessa ha creato. Ma perché il miracolo avvenga (e in questo credo che nessun dogmatico potrà essere in disaccordo) occorrono la fede e l’impegno di coloro che lo ricevono. Gesù dice al lebbroso di presentare ai sacerdoti l’offerta prescritta per la sua purificazione come una “testimonianza nei loro confronti”: il miracolo è quindi un dono, ma anche una sfida, una sfida a credere che una mentalità sbagliata che porta a passare sopra alla personalità del prossimo e porta ad emarginare i sani e non a curare i malati, si debba e si possa cambiare.

Il brano evangelico non ci racconta come finì la cosa, se cioè il “lebbroso” probabilmente affetto solo da un eczema, fu considerato “puro” o no, e quindi riammesso o no nella comunità sociale dai sacerdoti, e in tal modo sembra dirci che il dono e la sfida portati dal miracolo sono sempre davanti a ciascuno di noi. Una sfida che dovrebbe portare tutti, anche l’uomo della strada, ma principalmente coloro che ci governano e coloro (laici o ecclesiastici che siano) che contribuiscono a formare la pubblica opinione a prendere i principi del Vangelo, prima che come metro di giudizio delle scelte altrui, come guida per il proprio modo di comportarsi e come criterio in base a cui adottare per le proprie decisioni. Anche se considerati solo dal punto di vista umano, come principi di etica sociale e pubblica, essi consentirebbero di fare molti passi avanti sia nell’affrontare meglio la pandemia (disease) sia nel por fine ad un disagio sociale (illness) che rischia di trascinarsi per molto tempo ancora, con danni incalcolabili per la salute fisica e morale di tutti gli italiani.