Da Gerusalemme – Ebrahim Raisi è il nuovo presidente ultraconservatore dell’Iran. Le elezioni si sono svolte lo scorso 18 giugno, dopo che a maggio era stata resa pubblica la lista dei candidati accettati dal Consiglio dei guardiani, un organismo sotto il controllo del Leader supremo ayatollah Ali Khamenei. Se comunque il regime ha potuto selezionare i candidati per le elezioni ed escludere coloro che davano fastidio, non ha potuto però controllare l’affluenza al voto, grande protagonista di queste elezioni.
Prima delle elezioni, le autorità iraniane avevano detto che il voto sarebbe stato un “referendum” per rinnovare il patto con la Repubblica islamica, dando molta importanza pertanto all’affluenza del 18 giugno. La maggior parte degli iraniani ha quindi pensato bene di rispondere all’appello del regime, rimanendo a casa e non presentandosi alle urne. L’affluenza infatti è stata la più bassa nella storia della Repubblica islamica dal 1979. Se non si contano le schede nulle (3 milioni di elettori avrebbero votato in bianco o facendo dei disegnini sulla scheda elettorale), l’affluenza è stata inferiore al 40 per cento.
Ali Fathollah-Nejad, un accademico iraniano in Germania, ha detto a Radio Free Europe che la bassa affluenza alle urne rappresenta “un clamoroso rifiuto dell’intero sistema” da parte degli iraniani. Pertanto, per Fathollah-Nejad, il vincitore delle elezioni è stato “il boicottaggio”, che aveva lo scopo di privare la Repubblica Islamica della possibilità di sfruttare l’affluenza alle urne come prova della sua legittimità nel Paese. Norman Roule, ex agente della CIA e noto esperto di Iran, ha infatti postato un commento sarcastico sulla sua pagina Twitter, in cui mostra un’immagine di Raisi con decine di microfoni davanti a lui e dice: “Ci sono più microfoni che elettori delle elezioni iraniane”.
A sostenere questa tesi c’è anche l’ex presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad, escluso dai candidati delle elezioni del 18 giugno, che negli ultimi anni si è trasformato in un oppositore del regime dell’ayatollah Khamenei. Ahmadinejad, che rimane pur sempre un ultra-nazionalista islamico, recentemente ha saputo stupire l’Occidente con i suoi tweet in inglese dal suo account ufficiale, in cui scrive di basketball e cita canzoni del rapper Tupac (sembra infatti che l’ex presidente sia un appassionato di rap e di hip hop americano).
In una recente intervista con Independent Persian, l’enfant terrible della scena politica iraniana ha affermato che la Repubblica islamica ha perso il referendum che aveva indetto, sottolineando che le elezioni devono dare la possibilità di esprimere la volontà di una nazione, e non possono essere convertite in un gesto vuoto, in cui si getta soltanto un pezzo di carta in un’urna per poi tornarsene a casa. “Solitamente non mi aspetto che delle elezioni possano essere un referendum, ma in questo caso sono state le autorità stesse che hanno detto che si trattava di un referendum e che hanno chiesto al popolo di andare in massa alle urne, dato che ogni voto avrebbe rappresentato il rinnovo del patto con la Repubblica islamica,” ha detto l’ex presidente, aggiungendo di ritenere il regime iraniano responsabile per il deterioramento della situazione economica e politica nel Paese. “Penso che coloro che sono la causa di questa situazione dovrebbero essere chiamati a rispondere. Dovrebbero mettere da parte il loro atteggiamento di superiorità e rispondere alla gente”, ha ribadito.
Abdoreza Ahmadi, dissidente iraniano in Germania, ha ben riassunto così il voto dalla sua pagina Twitter: nel referendum per rinnovare il patto con la Repubblica Islamica, il 40 per cento che è andato alle urne ha detto “sì” alla Repubblica islamica, l’altro 60 per cento ha detto “no”. In poche parole, la Repubblica Islamica è crollata, ma il rumore della caduta non è stato ancora sentito.