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Il caso della nave Bana e il nostro interesse nazionale in Libia ormai smarrito

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Secondo quanto riportato ieri da Il Foglio, il 30 giugno scorso la Cassazione ha deciso di non applicare l’articolo 8 del Codice Penale nei confronti dell’equipaggio della nave Bana, fermato al porto di Genova il 3 febbraio 2020.

Ripercorriamo rapidamente i fatti: la nave cargo Bana – di proprietà di un imprenditore libanese vicino ad Hezbollah – era stata affittata dalla Turchia per portare armi in Libia, ovviamente a sostegno di al-Serraj. Un traffico avvenuto con la scorta di due fregate turche e con uomini dei servizi turchi direttamente a bordo della Bana.

La denuncia di quanto avveniva – ovvero del traffico di armamenti – era stata fatta direttamente da un ufficiale libanese della Bana e aveva portato all’arresto del capitano della nave, Jouseff Tartissi (55 anni).

A distanza di mesi, quindi, la Cassazione ha deciso di escludere l’applicazione dell’articolo 8 del Codice Penale – come richiesto dal pubblico ministero – non considerando il reato come un delitto commesso da stranieri che danneggia l’interesse italiano. Secondo i giudici, si applica l’articolo 10 del Codice Penale, che prevede la giurisdizione italiana sul delitto comune commesso da uno straniero.

Il caso Bana, per la cronaca, non riguardava solo il carico di armamenti che i turchi avevano spedito a Tripoli, ma anche i rapporti internazionali, dato che proprio traffici come quello hanno esacerbato i rapporti tra Parigi e Ankara, portando Macron a denunciare le violazioni di Erdogan e ad abbandonare la missione Nato di monitoraggio del Mediterraneo “Sea Guardian”.

La nostra riflessione è sia di natura giuridica che politica. Un reato è stato commesso e una sentenza andava emessa. Come sia stato possibile valutare che i traffici di armi verso la Libia non rappresentino in generale un dolo per l’interesse italiano, lascia senza parole. Soprattutto quando quel traffico si inserisce in un contesto più grande che coinvolge un imprenditore legato a Hezbollah, Ali Abou Merhi (e quindi i rapporti tra l’islamismo sciita e sunnita), e interessa un conflitto alle porte dell’Italia il cui inasprimento alimenta direttamente l’instabilità italiana, non fosse altro per la minaccia di aumento di migranti in arrivo sulle nostre coste.

Per quanto riguarda la questione politica, i giudici fanno i giudici e non dovrebbero rientrare nel loro compito valutazioni di politica internazionale. Il giudice dovrebbe limitarsi a valutare ciò che chiaramente è sotto i suoi occhi. Nel caso libico, decidere per non decidere è sembrato fin troppo facile per la Cassazione. L’Italia da anni non esprime un chiaro interesse nazionale in Libia, dove ormai fluttua tra il sostegno militare all’Egitto per rabbonirsi Haftar e quello alla Turchia, per rabbonirsi Erdogan davanti alle minacce del sultano neo-ottomano su gas e migranti.

Macron, può piacere o meno, ma esprime una posizione chiara di sostegno a Haftar e di dura opposizione a Erdogan. Le sue azioni in Libia non aiutano certo l’Italia, ma fanno l’interesse della Francia. Per un giudice francese sarebbe eventualmente facilissimo riscontrare cosa danneggi o meno l’interesse del suo Paese. Nel caso italiano, no. La sentenza della Cassazione sul caso Bana resta non condivisibile, ma è solo l’ultimo anello di una confusione geopolitica che da anni regna nella classe politica nazionale. Se i politici stessi non sono in grado di definire chiaramente quale sia il nostro “interesse nazionale” in Libia, è assurdo pretenderlo dal potere giudiziario…

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