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Il caso Pennsylvania, su cui potrebbe pronunciarsi la Corte Suprema: violate legge elettorale e Costituzione, 700 mila voti contestati

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Ecco perché il voto per posta “universale” è un vaso di Pandora, intrinsecamente inaffidabile, non garantisce libertà e segretezza ed è fonte di brogli e coercizione. Il caso della Pennsylvania, dove la Corte suprema statale ha esteso di tre giorni i termini di legge per l’accettazione delle schede per posta e il Dipartimento di stato ha permesso, contra legem, di aprire le buste prima del giorno delle elezioni e correggere i vizi di forma nelle contee a maggioranza Dem

Per quanto i media mainstream si rifiutino di accettarla, e si sforzino di oscurare l’offensiva legale del presidente Trump, la realtà è che ci troviamo nel bel mezzo di un’elezione contestata. Certo, sia il gioco delle assegnazioni durante la notte del 3 novembre sia la frettolosa proclamazione mediatica di Biden presidente-eletto miravano a mettere il Paese, l’opinione pubblica e le istituzioni, di fronte al fatto compiuto, ben prima che fosse ragionevole “chiamare” un vincitore. Come previsto, è scattata la narrazione di Trump “golpista” e agitatore, che i Democratici e i media fiancheggiatori preparavano da mesi, ma la realtà è che non c’è nulla di scandaloso o di pericoloso in un presidente uscente che si rivolge ai tribunali per contestare presunte irregolarità nel voto. È suo diritto farlo, ci sarà un processo legale, farà il suo corso, e la volontà dei media di ignorarlo, di ignorare qualsiasi elemento a supporto dei ricorsi, rifiutandosi di contemplare persino l’ipotesi, non è giornalismo, è attivismo politico.

Scandaloso e pericoloso, semmai, è attivare le agenzie di intelligence e i media con false accuse montate ad arte per delegittimare un presidente eletto, come fecero quattro anni fa la Clinton e i Democratici, con la complicità dell’amministrazione Obama. Coloro che oggi accusano Trump di non voler “concedere” la vittoria a Biden, sono gli stessi che per tre anni e mezzo, senza uno straccio di prova e sulla base di dossier e leak falsi, hanno alimentato la bufala dell’elezione rubata da Trump con l’aiuto dei russi.

Abbiamo già osservato nei giorni scorsi come siano strette la vie legali per Trump: ad oggi sono minime le speranze di ribaltare il risultato delle elezioni presidenziali contestando il voto nei tribunali, per una serie di ragioni che vanno dalla difficoltà di provare brogli massivi, e decisivi, a doverlo fare in più stati in pochi giorni.

Ciò non toglie però, che ogni osservatore dotato di buon senso e onestà intellettuale non dovrebbe ignorare l’opacità dello scrutinio negli stati in bilico, dove il conteggio dei voti è stato più volte fermato e ripreso, in attesa dell’arrivo di ulteriori schede anche ore e giorni dopo la chiusura dei seggi, e dove sono stati estromessi gli osservatori del Gop. Non si tratta di portare avanti teorie della cospirazione, ma di riconoscere l’inaffidabilità intrinseca del voto per posta, che in queste elezioni, con la scusa del Covid, per volontà dei Democratici è stato reso “universale”, da eccezione a regola, in molti stati.

Un vaso di Pandora che rischia di minare la credibilità del processo elettorale americano. Il voto per posta infatti non tutela libertà e segretezza, non c’è una reale garanzia su chi abbia compilato e imbucato la scheda, si presta a pesanti condizionamenti “ambientali” e al voto di scambio, a smarrimenti e ritrovamenti, voti attribuiti a persone decedute da anni o non più residenti. E noi italiani dovremmo saperlo bene. Siamo onesti: se qualcuno proponesse in Italia di estendere il voto per posta dagli italiani all’estero (dove irregolarità sono provate) a tutto il Paese, per evitare assembramenti ai seggi, verrebbe subito accusato di voler favorire il voto clientelare, il voto di scambio, la corruzione e le mafie.

Immaginate se in Italia fossero spedite per posta, settimane e settimane prima del voto, 40 milioni di schede senza ripulire le liste elettorali delle persone decedute o non più residenti (qualcuno ci perse un referendum…). Immaginate che in alcune regioni vengano conteggiate anche quelle che tornano senza timbro postale, senza estremi di identificazione dell’elettore, senza firma e indirizzo del mittente.

Ovviamente, l’intrinseca inaffidabilità del voto per posta di per sé non basta a provare brogli sistematici in tribunale. Ma si possono chiudere gli occhi su tali questioni solo perché le ha sollevate Trump? È quello che hanno fatto durante la campagna elettorale, e stanno facendo tuttora, i media mainstream Usa e italiani.

Una commissione bipartisan presieduta da Jimmy Carter e James Baker, ha ricordato l’Attorney General William Barr in una intervista del settembre scorso, ha affermato nel 2009 che il voto per posta è “pieno di rischi di frodi e coercizione”, e così sostenevano anche stampa a studi accademici. “La narrativa è cambiata quando è arrivata questa amministrazione”. Non si sono visti in passato brogli diffusi perché il voto per posta non era ancora così esteso come viene proposto oggi. Barr ha quindi spiegato la differenza tra gli absentee ballots, richiesti dalle persone da uno specifico indirizzo, e il voto per posta, in cui le schede vengono spedite indiscriminatamente, senza bisogno di fare richiesta, a tutti gli iscritti nelle liste elettorali, notoriamente non ripulite delle persone decedute e non più residenti. Le persone che propongono di adottare questo metodo, avvertiva Barr, stanno “giocando col fuoco”.

Il caso della Pennsylvania è diverso dai ricorsi in altri stati perché qui i problemi sono di ordine costituzionale e ci sono buone chance che la Corte Suprema decida di esprimersi.

Lunedì scorso la Campagna Trump ha depositato un lungo ricorso (86 pagine) alla corte federale, contestando alla Pennsylvania la violazione, nella gestione del voto, della Equal Protection Clause contenuta nel XIV Emendamento della Costituzione, lo stesso sulla base del quale nel 2000 la Corte Suprema si espresse a favore di Bush contro Gore riguardo il conteggio dei voti in Florida. Nel mirino quasi 700 mila voti per posta e absentee ballots provenienti dalle roccaforti Democratiche di Philadelphia e Allegheny (la contea di Pittsburgh).

Il ricorso accusa i funzionari e i tribunali dello stato di aver stabilito, de facto, “un illegale sistema elettorale a doppio standard”, che ha discriminato gli elettori per metodo di voto, tra voti espressi di persona e voti per posta, e preferenze, tra Democratici e Repubblicani. Ovvio, voti di persona e per posta non possono essere trattati esattamente allo stesso modo, essendo di natura diversa. Ma nella denuncia si sottolinea che alcune differenze di trattamento sono arbitrarie e contraddittorie, prevedendo standard inferiori per garantire l’integrità del voto proprio nel metodo di voto più a rischio, quello per corrispondenza.

In particolare, gli elettori di persona sono stati sottoposti a un rigoroso “matching” delle firme; hanno votato in un seggio monitorato, ai sensi di legge, da osservatori di entrambe le parti; “i loro voti contati in modo trasparente e verificabile, aperto e osservato”. Al contrario, si afferma che il segretario di Stato Kathy Boockvar (Democratica) “ha rimosso affermativamente quasi ogni elemento di trasparenza e verificabilità” per i quasi 2,65 milioni di voti per posta: non richiedendo una adeguata verifica dell’identità dell’elettore; permettendo il conteggio di schede arrivate fino a tre giorni dopo la chiusura dei seggi, anche senza prova che fossero state inviate entro i termini dell’election day (un punto oggetto di un ricorso già presentato alla Corte Suprema, su cui torneremo tra breve); autorizzando la verifica e il conteggio di tali schede “in gran parte in segreto, senza la presenza di osservatori”.

Nel ricorso si denunciano anche irregolarità nel processo preliminare, durante il quale i voti per posta vengono inventariati e iniziano a essere elaborati prima della chiusura delle urne il giorno delle elezioni. Nelle contee a forte maggioranza Democratica, agli osservatori sarebbe stata data la possibilità di contattare direttamente gli elettori che avevano completato le loro schede in modo scorretto (mancanza della busta interna di segretezza o della firma dell’elettore sulla busta esterna). A questi elettori, dunque, nelle contee a maggioranza Democratica, sarebbe stato permesso di correggere difetti che avrebbero portato ad invalidare il loro voto, mentre agli elettori di altre contee questa possibilità non sarebbe stata offerta. Il tutto, tra l’altro, violando la segretezza del voto.

Circostanze confermate a The Federalist da Joe Kantz, presidente della commissione elettorale della contea di Snyder, il quale ha riferito di modifiche dell’ultimo minuto apportate al processo elettorale dal segretario per le elezioni della Pennesylvania, che suggeriscono la violazione della Equal Protection Clause e dell’articolo 2, sezione 1, clausola 2 della Costituzione. La mattina del voto, ha raccontato, un osservatore Democratico gli ha fatto pressioni perché gli venissero forniti i numeri identificativi degli elettori che non avevano messo la loro scheda nella busta segreta interna, o che non avevano firmato la busta esterna, come richiesto dalla legge statale pena l’invalidazione del voto.

In una email della sera prima, in effetti, il vice segretario di stato per le elezioni aveva autorizzato le commissioni elettorali delle contee a fornire ai rappresentanti dei candidati e dei partiti informazioni sugli elettori le cui schede per posta erano state respinte, in contrasto con la legge elettorale della Pennsylvania.

Secondo il ricorso, tra l’altro, la contea di Philadelphia avrebbe iniziato il processo di verifica delle schede inviate per posta prima dell’election day, in violazione della legge dello stato che prevede che le buste non siano aperte prima delle ore 7 del giorno del voto.

Insomma, in alcune contee a forte maggioranza Democratica, come Philadelphia e Allegheny, è stato permesso agli elettori di correggere gli errori o rivotare, mentre ciò non è accaduto in contee a maggioranza Repubblicana, le quali si sono attenute alla legge, che proibisce di aprire le buste prima del giorno del voto e di fornire ai rappresentanti dei candidati e dei partiti qualsiasi informazione sull’esito dello scrutinio prima della chiusura dei seggi. E come provano anche alcuni documenti pubblicati sui social media, i Democratici erano stati avvertiti preventivamente delle linee guida dell’ultimo minuto del Dipartimento di Stato della Pennsylvania in contrasto con la legge.

Inoltre, i ricorrenti denunciano che lungo tutto il processo, nelle contee di Philadelphia e Allegheny, le fasi di “ricezione, revisione, apertura e conteggio” delle schede elettorali per posta sono state di fatto nascoste agli osservatori autorizzati della Campagna Trump. I funzionari elettorali, si sostiene nel ricorso, addirittura “non hanno rispettato” l’ingiunzione di un giudice che aveva stabilito di consentire agli osservatori di monitorare lo scrutinio entro la distanza di sei piedi.

In sostanza, il ricorso sostiene che agli elettori Democratici siano stati garantiti vantaggi ingiusti, e che il processo sia stato gestito in modo tale da nasconderli.

Come osservato da Andrew McCarthy, un caso simile a quello della Florida nel 2000, quando la Corte Suprema ordinò di interrompere il processo di riconteggio ordinato dalla Corte suprema statale, avendo riscontrato che per come veniva eseguito portava ad un trattamento altamente discriminatorio tra le schede di diverse contee – e talvolta anche all’interno della stessa contea.

Nel caso del riconteggio in Florida nel 2000, la Corte Suprema ha sostenuto che un trattamento che ha l’effetto di cancellare i voti di alcuni elettori, o che privilegia alcuni elettori rispetto ad altri, è incostituzionale, rimproverando alle autorità statali di non aver saputo garantire e applicare standard uniformi nello scrutinio.

Il problema principale, sottolineato allora dai giudici della Corte Suprema, fu che le decisioni della corte statale avevano scavalcato le regole elettorali promulgate dal Legislatore della Florida, mentre è quest’ultimo, non il potere giudiziario, che ha il potere costituzionale di stabilire modalità e tempi in cui si svolgono le elezioni presidenziali.

Dunque, se le affermazioni fattuali contenute nel ricorso dovessero essere provate, il precedente della Florida potrebbe essere applicato al caso della Pennsylvania. E in particolare, applicato alla decisione della Corte suprema statale che ha esteso la scadenza per la ricezione dei voti per posta fino a tre giorni dopo l’election day, in contrasto con le disposizioni di legge.

La questione è oggetto di una istanza che i Repubblicani avevano già presentato alla Corte Suprema, che si era rifiutata di esprimersi d’urgenza prima delle elezioni, ma non aveva respinto il caso, che quindi resta aperto.

Nel 2019, l’Assemblea generale della Pennsylvania ha approvato una legge, “Act 77”, per permettere a tutti gli elettori di votare per posta, ma (usando le parole del giudice supremo Alito) “richiedeva in modo inequivocabile che tutte le schede per posta fossero ricevute entro le ore 20:00 del giorno delle elezioni”. Il testo esatto:

“No absentee ballot under this subsection shall be counted which is received in the office of the county board of elections later than eight o’clock P.M. on the day of the primary or election”.

Inequivocabile.

L’Act 77 prevedeva, inoltre, che se questa parte della legge fosse stata invalidata, anche la liberalizzazione del voto per posta sarebbe stata annullata.

“Sections 1, 2, 3, 3.2, 4, 5, 5.1, 6, 7, 8, 9 and 12 of this act are nonseverable. If any provision of this act or its application to any person or circumstance is held invalid, the remaining provisions or applications of this act are void”.

Ma un’ordinanza della Corte suprema della Pennsylvania ha stabilito, in totale contrasto con la legge, che 1) le schede per posta possono essere accettate fino a tre giorni dopo il voto, se il timbro postale è del giorno del voto o precedente e 2) le schede per posta senza timbro postale o con timbro illeggibile devono essere accettate se ricevute entro la stessa data.

In pratica, con la scusa del Covid, in Pennsylvania la Corte suprema statale ha riscritto la legge, creando nuove regole su tempi e modalità di svolgimento del voto, che per Costituzione spettano al Legislatore dello stato, mentre il Dipartimento di stato che gestisce e sovrintende il processo elettorale, ha violato in modo significativo la legge permettendo, tra le altre cose, l’ispezione delle schede per posta prima del giorno delle elezioni e che informazioni sugli elettori fossero divulgate prima della chiusura dei seggi.

L’ordinanza di un giudice della Pennsylvania emessa giovedì stabilisce che non vengano contati i voti per posta i cui vizi di forma siano stati corretti dopo il 9 novembre. Si tratta di una prima decisione favorevole al presidente Trump, significativa non per la quantità di voti coinvolti, non decisiva, ma perché riconosce che il segretario di Stato non aveva l’autorità di estendere i termini di accettazione delle schede in contrasto con la legge elettorale.

Un giudizio della Corte Suprema favorevole a Trump sul caso della Pennsylvania sarebbe di estrema importanza per diversi motivi, anche se non portasse ad un ribaltamento dell’esito delle presidenziali. Ridurrebbe considerevolmente i margini della vittoria di Biden mostrando la fondatezza almeno di alcuni reclami in uno stato chiave; getterebbe un’ombra sulla gestione del voto per posta anche negli altri stati in cui il vantaggio di Trump la notte del 3 novembre è stato ribaltato per uno zero virgola; indicherebbe delle garanzie minime sul voto per posta in vista delle elezioni future.

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