Il China Virus prodotto in laboratorio? Twitter censura Li-Meng Yan, virologa scomoda per Pechino

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Affermazioni impegnative quelle di Li-Meng Yan, non corroborate per il momento da altre pubblicazioni scientifiche, ma invece del dibattito, è partita subito la macchina del fango e della censura. E la censura è opera di quell’enorme macchina dispensatrice di patenti di presentabilità sociale che è diventata Twitter, una piattaforma occidentale… Una censura grossolana, arbitraria e politicamente motivata, destinata ad essere rubricata sotto l’onnicomprensiva e ingannevole etichetta di “lotta alle fake news”, che rilancia una serie di interrogativi sul ruolo dei social media e sul clima ideologico che sta scuotendo le fondamenta stesse della società occidentale

I lettori di Atlantico Quotidiano conoscono già la storia di Li-Meng Yan.
L’avevamo raccontata lo scorso luglio, a ridosso di un’intervista rilasciata a Fox News, in cui la ricercatrice dell’Università di Hong Kong spiegava le ragioni della sua fuga negli Stati Uniti. Secondo la sua testimonianza, si era messa in salvo dalle ritorsioni del governo cinese, dopo aver condiviso con alcuni virologi della madrepatria informazioni sulla trasmissibilità del Covid-19 tra persone, in un momento (fine dicembre-inizio gennaio) in cui il black-out informativo imposto dal Partito Comunista era totale.

Pochi giorni fa Li-Meng Yan ha alzato la posta, rendendo pubblico il risultato di una ricerca condotta insieme a tre colleghi in cui si sostiene che il coronavirus cinese sarebbe il risultato di un procedimento di laboratorio, contrariamente a quanto sostenuto quasi unanimemente dalla comunità scientifica internazionale: qui potete trovare il documento completo. Sono tre le linee argomentative a sostegno di questa tesi. La prima riguarda la sequenza del genoma del SARS-CoV-2 (il nome scientifico del nuovo coronavirus), sospettosamente simile a quella di un coronavirus di pipistrello su cui stavano già lavorando due laboratori militari di Chongqing e Nanjing; la seconda si riferisce al recettore della proteina Spike, in pratica l’elemento che consente al virus di attecchire, che ricorda troppo quello della SARS del 2003, una coincidenza che suggerirebbe un intervento umano; la terza concerne la furina, l’enzima responsabile dell’infezione polmonare, la cui modalità di scissione, nel caso specifico, non sarebbe compatibile con i coronavirus presenti in natura. Affermazioni impegnative, certo, non corroborate per il momento da altre pubblicazioni scientifiche, ma che hanno almeno il merito di riportare l’attenzione su una questione incagliatasi dall’inizio sugli scogli della versione ufficiale cinese, quella dell’origine di un virus che ha sconvolto gli equilibri del pianeta e i cui effetti politici e sociali a lungo termine sono ancora tutti da decifrare. Invece del dibattito, però, è partita subito la macchina del fango e della censura.

Il fango arriva proprio da Hong Kong, tramite quella che fino a pochi mesi fa era ancora una voce indipendente nel panorama informativo cinese e che oggi deve fare i conti con le regole di obbedienza imposte dalla famigerata legge di sicurezza nazionale. Il South China Morning Post ha pubblicato un articolo in cui si denuncia il legame tra il lavoro di Li-Meng Yan e la fondazione Rule of Law, che fa capo al tycoon Guo Wengui, accusato di corruzione dalla giustizia cinese, e a Steve Bannon, ex consigliere di Trump nella prima parte del suo mandato e considerato a lungo il guru di una fantomatica Internazionale di destra le cui diramazioni restano al momento piuttosto indefinite. Tanto basta, comunque, per screditare a priori il lavoro dei quattro ricercatori e per chiudere qualsiasi porta ad una valutazione oggettiva delle loro conclusioni.

La censura invece è opera di quell’enorme macchina dispensatrice di patenti di presentabilità sociale che è diventata la piattaforma Twitter. In una mossa francamente sorprendente perfino per gli standard moralizzatori e politicamente corretti della compagnia, l’account di Li-Meng Yan è stato disattivato due giorni dopo la pubblicazione del report, per violazione delle norme corporative. Quale sia stata l’infrazione in cui è incorsa la ricercatrice non è dato sapere, visto che i responsabili di Twitter, interpellati, hanno dichiarato di non essere tenuti a dare spiegazioni su casi singoli. Questa censura grossolana, arbitraria e certamente politicamente motivata, destinata ad essere rubricata sotto l’onnicomprensiva e ingannevole etichetta di “lotta alle fake news”, rilancia una serie di interrogativi sul ruolo dei social media e sul clima ideologico che sta scuotendo le fondamenta stesse della società occidentale.

Dal generale al particolare, come in una matrioska, proviamo a enunciarne alcuni:
– se Twitter o altri social media decidono di trasformarsi da piattaforme digitali per utenti in rete a editori dei propri contenuti, dovrebbero dichiararlo espressamente, accettando innanzitutto una revisione nelle regole di utilizzo e diffusione della proprietà intellettuale;
– in assenza di novità in questo senso, non si capisce in base a quale principio le piattaforme online decidano di ergersi a censori di contenuti sgraditi, né se lo facciano di propria iniziativa o in base a input ricevuti dall’esterno;
– non è chiaro, peraltro, quali siano le competenze dei censori di Twitter per decidere se un contenuto è appropriato o meno: da chi è stata presa la decisione di sospendere l’account di Li-Meng Yan? Se risponde a considerazioni di carattere scientifico, quali sono e chi è stato consultato? Se risponde a valutazioni di altro tipo, perché non sono rese note, vista la delicatezza dell’argomento?
– anche dando per buone tutte le premesse inesistenti di cui sopra (piattaforma editrice, scelta dei contenuti, competenza), resta da risolvere il problema della discrezionalità: perché alcuni contenuti sì e altri no? Perché il disclaimer sotto i tweet di Trump e non sotto le esternazioni antisemite di Khamenei? Perché questa sgradevole sensazione che i contenuti “sbagliati” lo siano sempre e solo in un’unica direzione e il “castigo” venga amministrato sempre nei confronti di certi soggetti o tendenze politiche, risparmiandone altre? Insomma, perché i social media assomigliano sempre più alla propaganda dei regimi illiberali e sempre meno a piattaforme di dibattito e di libera circolazione delle idee?

Il caso di Li-Meng Yan non farà discutere, il personaggio non è sufficientemente noto e, soprattutto, la censura non susciterà l’indignazione dei tanti paladini della democrazia da personal computer, che ormai fanno colazione a pane e antifascismo. Più probabilmente, quelli che se ne accorgeranno, applaudiranno l’iniziativa di Twitter in nome della scienza, che in questo caso è già morta da un pezzo, strangolata dalla propaganda politica. Il problema, però, va oltre Li-Meng Yan e il suo paper, fosse anche inattendibile e superficiale. C’è una strana idea là fuori, che pretende di far coincidere la pratica democratica con la verità rivelata, depurata, politicamente corretta. L’obiettivo di ridurre le fake news è condivisibile in teoria ma è il metodo che lo corrompe: come i tribunali dell’Inquisizione lasciavano all’imputato solo l’alternativa tra pentirsi o finire sul rogo, così il metodo della verità decisa a tavolino rende la libertà d’espressione un simulacro di se stessa. O sei dei nostri, o non sei nessuno.

La democrazia (intesa come insieme di regole, diritti e libertà essenziali) contempla però solo una verità processuale, un giudizio accusatorio, basato sul contraddittorio tra le parti, e perfino sulla fallibilità del giudice. È un percorso che si interrompe nel momento stesso in cui viene negato il diritto al parere discordante.

Sicuramente a Twitter non è mai arrivato dal governo di Pechino un ordine di soppressione dell’account di Li-Meng Yan. Ormai è diventato naturale comportarsi in un certo modo, la linea è tracciata, tutti sanno cosa devono fare quando si rileva l’anomalia. È proprio questa “spontaneità” che dovrebbe darci la misura del pozzo nel quale, quasi senza accorgercene, ci stiamo sommergendo.

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