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Il “conservatorismo popolare” di Trump e Johnson è vincente, mentre in Europa il centrodestra è in crisi

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Il successo di Boris Johnson e del Partito Conservatore alle elezioni britanniche è stato molto significativo sia in termini di dimensioni numeriche che di messaggio politico. Si tratta del miglior risultato dei Tories dagli anni della Thatcher e soprattutto offre la possibilità di gestire le prossime fasi del processo della Brexit da una posizione di maggiore forza politica e con adeguati margini di manovra parlamentare. Per i Conservatori britannici è, tecnicamente, il quarto mandato consecutivo. È vero che due delle ultime tre legislature sono state brevi, ma intanto il Partito ha già governato per nove anni e mezzo ed ha adesso a disposizione altri cinque anni.

A quanto pare, c’è una parte dell’Occidente in cui i partiti classici del centrodestra sembrano non conoscere crisi. Questa parte del mondo è l’”Anglosfera”. I Conservatori governano negli Stati Uniti, nel Regno Unito e in Australia. Non governano, ma sono comunque il primo partito in termini di voti, in Canada e in Nuova Zelanda. Ovunque hanno percentuali di consenso da fare assoluta invidia ai leader del centrodestra europeo.

Nei fatti, nella maggior parte del continente europeo, il centrodestra tradizionale, che ha rappresentato per molti anni uno dei due attori maggiori del classico bipolarismo, pare segnare irrimediabilmente il passo. Il declino di Forza Italia da noi e dei Repubblicani in Francia, la crisi del Partito Popolare in Spagna e le difficoltà della CDU in Germania sono manifestazioni diverse dello stesso fenomeno – la perdita da parte della politica mainstream di un contatto con la base e la sempre maggiore difficoltà del tradizionale moderatismo di offrire chiavi di lettura convincenti delle complesse dinamiche del mondo di oggi.

Di frequente i partiti di area PPE soffrono la concorrenza di destre nazionali e identitarie che però appaiono, il più delle volte, lontane dall’obiettivo di presentarsi come effettive opzioni di governo alternative. Ne risulta, in termini complessivi, un quadro politico tendenzialmente confuso e frammentato che difficilmente può essere il terreno adatto a un progetto politico di ampio respiro.

In America e nei Paesi di tradizione anglosassone, tuttavia, la musica è diversa. Una delle ragioni risiede, certo, anche in leggi elettorali che favoriscono la stabilità del quadro politico ed incentivano il fatto che i cambiamenti di linea maturino all’interno dei partiti consolidati anziché attraverso sfide esterne.

Attribuire la salute del centrodestra anglofono solamente ad aspetti tecnici, come il sistema di voto, tuttavia, appare riduttivo. La verità è che, in particolare, politici come Donald Trump negli Stati Uniti e Boris Johnson in Gran Bretagna sono stati capaci di trovare una ricetta politica in grado di aggregare con successo una coalizione sociale maggioritaria.

Vi sono, certo, differenze tra la prospettiva della Casa Bianca e quella di Downing Street, ma vi sono anche fondamentali tratti in comune. In particolare la capacità di costruire un nuovo equilibrio politico in grado di coniugare politiche “sviluppiste” pro-mercato e pro-business con esigenze di coesione sociale e nazionale.

L’attenzione alle problematiche di immigrazione e sicurezza, ma anche alcune politiche di welfare “cruciali” per il consenso – è il caso dell’impegno di Johnson a favore del sistema sanitario – sono ingredienti importanti per avvicinare molti elettori al voto per i Repubblicani in America o per i Tories in Gran Bretagna.

Questo naturalmente non vuol dire operare ripiegamenti in senso socialdemocratico. La riforma fiscale di Trump, così come le ripetute affermazioni di Johnson che servizi pubblici efficienti sono sostenibili solo da un’economia dinamica di mercato, dimostrano come i conservatori non stanno disertando i temi del contenimento del ruolo dello Stato.

Il nocciolo della questione, tuttavia, è che la preservazione del modello di sviluppo capitalista richiede che i benefici a cui esso conduce siano non solamente “diffusi”, ma anche effettivamente percepiti come tali.

In questo senso la strategia del trumpismo e dello “One Nation Conservatism” di Johnson appare quella di estendere ad un pubblico più ampio e socialmente trasversale, anche attraverso rassicurazioni sulle questioni legate all’identità culturale, il dividendo del sostegno a politiche di centrodestra.

È in questo modo che Donald Trump negli Stati Uniti e Boris Johnson nel Regno Unito hanno messo i propri partiti nelle condizioni di fare irruzione all’interno di segmenti di elettorato che, in precedenza, sembravano preclusi. La Rust Belt di Trump e il North East di Johnson sono la dimostrazione dello sforzo riuscito di “vincere in trasferta”.

Quello che è davvero interessante, nelle elezioni della settimana scorsa, è il fatto che i Conservatori siano riusciti ad affermarsi tanto in alcune delle constituency più ricche del Paese, come le aree londinesi di Kensington, Westminster e Chelsea and Fulham, quanto in alcune aree più disagiate e con tradizioni quasi secolari di voto laburista come Don Valley, Rother Valley e Leigh. Questa riconfigurazione del voto sembra dimostrare che l’appartenenza di classe – e per molti versi la stessa economia – contano meno che in passato nella determinazione delle preferenze elettorali, mentre assumono più rilevanza altri fattori di carattere culturale.

La sfida di forze moderne di centro-destra e di destra è quella di impegnarsi ad essere maggioranza, tenendo conto di questi nuovi elementi, ma al tempo stesso mantenendo la consapevolezza che la crescita economica resta condizione indispensabile per la stabilità nel tempo e per il pieno sviluppo anche civile e culturale di un Paese.

La ricetta vincente – e non scontata – consiste nel perseguire la via dello sviluppo, dell’impresa e della libera iniziativa senza perdere accountability democratica e senza frustrare i sentimenti di appartenenza comunitaria.

Da questo punto di vista, in questo momento, è il conservatorismo ad essere l’unica proposta politica market-friendly che si ponga anche il problema di ricercare e di ottenere un effettivo consenso dal basso, anziché limitarsi ad enumerare soluzioni e a perseguire un qualche costruttivismo illuminato.

È per questa ragione che esso appare una prospettiva politica molto più promettente e concreta rispetto alle illusioni albergate da molti “liberal-democratici” che invece sia possibile – oggi, nel 2019 – una “via tecnocratica” al mercato che coltivi un aristocratico distacco rispetto alle dinamiche culturali e sociali e veda come “fumo negli occhi” gli esercizi elettorali e referendari.

Non c’è dubbio che questo nuovo “conservatorismo popolare” può fare storcere il naso a chi sia affezionato ad una maggiore “purezza ideologica” di matrice reaganiana o thatcheriana. Ma è anche vero che, nella storia dell’ultimo secolo, di Reagan e di Thatcher non è che ce ne siano poi stati così tanti. Di conseguenza non servono eccessivi esercizi di pragmatismo per affermare che, nel contesto che stiamo vivendo, un presidente come Donald Trump e un primo ministro come Boris Johnson possono essere apprezzati non solamente come “il minore dei mali”, ma anche come un effettivo fattore positivo nella difesa del capitalismo e dei valori dell’Occidente.

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