La pandemia in arrivo ci impone una riflessione anche sulla globalizzazione, sulle organizzazioni internazionali e sulla pericolosa utopia di una governance globale
Errori banali eppure cruciali, come abbiamo già osservato, che ci costeranno molto cari, quelli commessi fino ad oggi dal nostro governo, praticamente nei primi minuti di gioco dell’emergenza coronavirus. L’ostinato rifiuto ad adottare la misura più efficace per contenere la diffusione del virus nel nostro Paese, l’isolamento di chiunque rientrasse da qualunque zona della Cina, nonostante fosse stata proposta già alla fine di gennaio non solo dai partiti di opposizione e da alcune istituzioni, ma anche da scienziati. Misura necessaria proprio perché, com’è noto, nella maggior parte dei casi il coronavirus si manifesta con sintomi lievi, che non impediscono alla persona infetta di continuare la sua vita sociale diffondendo il contagio. Poi una gestione schizofrenica della comunicazione, passata da un giorno all’altro dalla sottovalutazione all’allarmismo, come sulle montagne russe. L’unico elemento costante, purtroppo, e proprio nel periodo più delicato, è stata l’ideologia politically correct: la preoccupazione principale era di non alimentare psicosi e discriminazioni, buttarla sul razzismo nella dialettica con le opposizioni, piuttosto che la pericolosità del virus e l’inaffidabilità dei numeri ufficiali provenienti da Pechino e dall’Oms.
Infine, la sconsiderata accusa (poi ritrattata, perché senza fondamento) lanciata in tv dal premier agli ospedali del lodigiano di non aver seguito i protocolli e aver così “contribuito alla diffusione” del virus. Uno scaricabarile irresponsabile, un vero e proprio sciacallaggio, su cui i magistrati della Procura di Lodi – non bastava Conte come primadonna! – hanno pensato bene di aggiungere il carico da undici aprendo un fascicolo di indagine (senza ipotesi di reato né indagati) e mandando i Nas a sequestrare cartelle. Ora, immaginate quel personale sanitario e non, sotto una pressione enorme da giorni, a star dietro pure ai Nas… Un generale che fa sparare ai suoi uomini in prima linea…
Detto questo, non bisogna però dimenticare che la diffusione del coronavirus si deve ad una catena di omissioni, silenzi e ritardi che viene da lontano, da molto lontano. Soprattutto se venisse dimostrato che, come qualcuno ipotizza (la virologa Ilaria Capua), il virus è arrivato in Italia (e in Europa) molto prima di quanto pensiamo, forse prima che il presidente cinese Xi Jinping e l’Oms dichiarassero l’emergenza. Se infatti il virus si è diffuso in Cina a partire dai primi di dicembre, grazie alla velocità dei mezzi di trasporto e al numero di spostamenti non è così assurdo ipotizzare che sia sbarcato già durante la prima metà di gennaio. Ieri, in sole 24 ore, 9 nuovi casi positivi in Germania (tra questi un medico), dopo due settimane in cui il conteggio era rimasto fermo a 16. E solo uno sembra abbia a che fare con il nostro focolaio nel lodigiano. Il ministro della salute tedesco Spahn ha dichiarato che “siamo all’inizio dell’epidemia” di coronavirus in Germania (“molti contatti” e “catene delle infezioni non più ricostruibili”). Se, come sembra, si tratta dei primi focolai tedeschi, insinuazioni e dietrologie stanno a zero, tra noi e gli altri Paesi europei potrebbe essere solo questione di (poco) tempo.
Qui su Atlantico siamo stati tra i pochi e tra i primi a sottolineare l’inaffidabilità dei dati ufficiali di Pechino sull’epidemia in atto in Cina, riportando articoli della stampa internazionale e autorevoli studi scientifici. Inaffidabilità che con il passare dei giorni emergeva sempre più chiaramente, ma proprio su quei dati le autorità nazionali di quasi tutti i Paesi hanno basato l’elaborazione di scenari, misure di prevenzione e contrasto, mentre in Italia trascorrevamo settimane preziose a farci fotografare con involtini primavera in bocca, o abbracciati a un amico cinese, e a discutere se fosse discriminatorio non far tornare a scuola per 14 giorni i bambini di qualunque nazionalità di ritorno dalla Cina, non di quanto fosse pericoloso il virus. Una decina di giorni fa la Cnn calcolava che circa 780 milioni di cinesi, metà della popolazione, sono sottoposti a una qualche forma di restrizione di movimento, con l’impatto economico che possiamo immaginare. Un regime come quello cinese non adotta misure così devastanti per la propria economia per un virus un po’ più aggressivo di una normale influenza.
Pensate solo che nella totale indifferenza dei media – non mi risulta sia stato riportato da agenzie di stampa o giornali – durante la conferenza stampa di aggiornamento quotidiano sull’emergenza del 25 febbraio, ore 18 (andate a risentirvela), al fianco del capo della Protezione civile Borrelli, il direttore del Dipartimento di malattie infettive dell’Istituto superiore di sanità Giovanni Rezza ha parlato così, en passant, come se fosse ormai un dato acquisito, di “almeno un milione di persone infette a Wuhan”, quando il dato ufficiale in tutta la Cina non superava gli 80 mila. Per citare solo l’ultimo degli articoli della stampa internazionale, secondo The Epoch Times documenti governativi trapelati rivelerebbero che dal 9 al 23 febbraio le autorità sanitarie della provincia cinese dello Shandong avrebbero riportato nei loro annunci pubblici un numero inferiore di contagi rispetto a quello calcolato dal CDC locale, superiore da 1,36 a 52 volte quello ufficiale. Per esempio, il 25 febbraio sono stati dichiarati 755 contagi, mentre il 23 risultavano già 1.992 positivi.
E resta ancora incerta l’origine del virus. Al mercato del pesce di Wuhan non crede più quasi nessuno, nemmeno Pechino insiste. Un nuovo studio di ricercatori cinesi, citato dal Global Times, un organo del regime, indica che “la trasmissione da uomo a uomo del nuovo coronavirus potrebbe aver avuto inizio alla fine di novembre da un posto diverso dal mercato del pesce di Wuhan”. “Se gli allarmi avessero ricevuto una più ampia attenzione pubblica – osservano i ricercatori – il numero di casi a livello nazionale e globale nella seconda metà di gennaio sarebbe stato più basso”. Un altro studio, citato dal Caixin Global, ha registrato una concentrazione anomala di morti (19) in un ospizio di Wuhan vicino al mercato del pesce prima dello scoppio dell’epidemia. Ancora non si può del tutto escludere, poi, che il nuovo virus sia sfuggito per errore da un laboratorio di massima sicurezza situato proprio a Wuhan, vicino a quel mercato, ma questa è un’altra storia.
Tornando alle responsabilità dei ritardi nel lanciare l’allarme, nel tentativo di scagionare se stesso e il partito centrale, scaricando ogni colpa sui funzionari locali di Wuhan, “poche mele marce”, il presidente Xi Jinping ha fatto filtrare sugli organi ufficiali un suo discorso del 3 febbraio ai dirigenti del partito, ai quali ha riferito di aver dato il 7 gennaio “ordini verbali e istruzioni sulla prevenzione e il contenimento del nuovo coronavirus“. Questo forse aggrava la posizione dei funzionari di Wuhan, ma dimostra anche che Pechino sapeva del coronavirus e della sua gravità già il 7 gennaio, ma solo dopo 13 giorni, il 20 gennaio, il presidente Xi si sarebbe deciso a parlare alla nazione e al mondo dichiarando l’emergenza. Oltre un mese e mezzo dopo la comparsa della prima “polmonite misteriosa”; 20 giorni dopo l’allarme lanciato via chat dal giovane medico di Wuhan, Li Wenliang, arrestato, poi morto e riabilitato; 10 giorni dopo la condivisione del profilo genetico del nuovo virus con l’Oms. Per almeno 13 giorni, quindi, fino al 20 gennaio appunto, viene negato il contagio da uomo a uomo, non scatta alcuna misura di prevenzione straordinaria, i medici visitano ancora senza protezione, i casi dichiarati sono fermi ad alcune decine, i cittadini di Wuhan e del resto della Cina vengono tenuti all’oscuro, non compare una sola parola sull’epidemia in corso sugli organi di stampa ufficiali del Partito comunista.
Ancora questa settimana, martedì scorso, il segretario di Stato Usa Mike Pompeo ha accusato i governi di Cina e Iran di censurare l’informazione riguardante l’epidemia nei loro Paesi, facendo correre al resto del mondo un rischio ancora più grande: “La censura può avere conseguenze mortali”. Sempre martedì, il segretario alla salute Alex Azar riferendo al Congresso ha detto esplicitamente che “il mondo non sta ottenendo dati affidabili dalla Cina su questioni come il tasso di mortalità”.
L’inaffidabilità dei dati di Pechino, e i suoi gravi ritardi nel dichiarare e affrontare l’emergenza nelle cruciali settimane iniziali, portano inevitabilmente a mettere in discussione l’operato dell’Oms, oggetto di numerose e puntuali critiche che abbiamo già riportato su Atlantico. L’Oms è stata “troppo deferente nei riguardi della Cina nella sua gestione del nuovo virus”, ha titolato giorni fa il Wall Street Journal. Le sue decisioni si sono rivelate tardive e politicamente condizionate. Nel non dichiarare prima del 30 gennaio l’emergenza sanitaria globale, scrive il WSJ, “l’Oms ha dato troppo peso alle preoccupazioni di Pechino che la decisione avrebbe danneggiato la sua economia e l’immagine della sua leadership”. Una decisione in questo senso poteva essere assunta già nella riunione del 22 e 23 gennaio, subito dopo l’intervento pubblico di Xi Jinping del 20 gennaio. Si sarebbe anticipata di una settimana la risposta di quasi tutte le autorità nazionali. Se a questa settimana sommiamo i 13 giorni, nella migliore delle ipotesi, persi da Pechino, arriviamo ad un ritardo della risposta globale a prevenire e contrastare il nuovo coronavirus di almeno 20 giorni.
Come si fa, alla luce di tutto questo – il virus che circola, il nostro governo nel caos, gli scienziati che bisticciano, i dati cinesi inattendibili, le organizzazioni internazionali colluse con Pechino o assenti – a colpevolizzare la “common people”, che – ci pare non così irrazionalmente – mostra un po’ di sana paura?
A questo punto, una riflessione dovrà essere aperta anche sulla globalizzazione, sulle organizzazioni internazionali e sulla pericolosa utopia di una governance globale. Non si tratta di mettere in discussione lo scambio delle merci, la circolazione di beni, capitali e persone, di alzare muri e steccati ai confini. Piuttosto, di correggere un processo che da una parte, in Occidente, è stato dirottato da un’ideologia multiculturalista e universalista completamente distaccata dalla realtà, del tutto ignara del ruolo insostituibile degli stati nazionali (“Imagine there’s no countries”), dall’altra, da potenze come la Cina, sfruttato per perseguire una vera e propria politica di potenza il cui fine, oltre che sfidare la leadership Usa e occidentale, è quello di rimodellare l’ordine liberale sul proprio modello illiberale. Abbiamo concesso troppo spazio e troppa interdipendenza a Pechino: la sua inclusione nel Wto non l’ha portata a mantenere l’impegno di completare la liberalizzazione economica, né ha innescato un processo di apertura democratica come molti speravano. Altro che Trump… oggi è la Cina il problema della globalizzazione: la concorrenza sleale in campo commerciale, la sfida tecnologica e cibernetica, il sistema totalitario, l’aggressività militare, i virus pandemici, sono tutti volti dello stesso problema.
E le organizzazioni internazionali, quando assenti e silenti, o quando colluse, mentre dovrebbero essere “tecniche” (o così pretenderebbero di essere), hanno finito per fare il gioco di Pechino e di altre potenze autoritarie e revisioniste, rivelando quanto sia fallace, una pericolosa illusione, l’idea di una governance globale.
Nel suo intervento del dicembre 2018 al German Marshall Fund, il segretario di Stato americano Pompeo ha ricordato che l’ordine internazionale edificato dopo la Seconda Guerra Mondiale si fonda sul ruolo degli stati nazionali e che è necessario ristabilire tale ruolo, oggi messo in discussione, se vogliamo che l’edificio resti in piedi e continui a svolgere i compiti per i quali era stato concepito. Il ruolo degli stati nazionali non è affatto in contraddizione con l’ordine liberale, cosa che invece oggi si tende a dare quasi per scontata. Al contrario, le “nazioni sovrane” sono gli insostituibili mattoni di questo edificio, perché è in esse che i popoli, riconosciuto il diritto all’autodeterminazione, si riconoscono, mentre l’umanità è un concetto troppo ampio e diverso per dar vita a una identità universale condivisa.
Il problema è che le organizzazioni internazionali hanno cominciato a prendere vita propria, allontanandosi dagli interessi delle nazioni da cui traggono la loro legittimazione e finendo per rendersi strumenti, consapevoli o meno, di regimi autoritari avversari dell’Occidente, che hanno finalità e principi opposti a quelli per i quali erano state concepite. Al contrario dei popoli di questi regimi, che non hanno mai sperimentato cosa sia il controllo democratico, o non ne hanno il ricordo, i cittadini delle democrazie liberali, sia in Europa che negli Stati Uniti, avvertono questo allontanamento, la mancanza di accountability di queste istituzioni, mentre nei confronti dei loro governi nazionali, per quanto impopolari, gli elettori conservano l’arma del voto.
Lo sviluppo economico, ha osservato Pompeo nel suo discorso, non ha portato Pechino ad “abbracciare la democrazia”, né alla “stabilità regionale”, ma “ha portato più repressione politica e provocazioni regionali”. “Abbiamo accolto la Cina nell’ordine liberale, ma mai vigilato sul suo comportamento”. E così “ha puntualmente sfruttato le scappatoie nelle regole del Wto, imposto restrizioni al mercato, forzato trasferimenti di tecnologia, rubato proprietà intellettuale. E sa che l’opinione pubblica mondiale non ha il potere di fermare le sue orwelliane violazioni dei diritti umani”. E oggi, possiamo aggiungere, ha messo la salute e l’economia mondiale a rischio con la diffusione del coronavirus.
Dunque, occorre chiedersi se l’attuale ordine internazionale e le sue organizzazioni siano al servizio dei cittadini, siano in grado di tutelare la nostra sicurezza, la nostra salute e prosperità e, in caso contrario (sembra essere purtroppo il caso di questa pandemia), come possiamo aggiustarlo. C’è il rischio concreto infatti che l’inerzia di oggi sia più funzionale alle potenze autoritarie – Cina e Russia in testa – che ne hanno approfittato per avanzare i loro interessi, elevare il loro status e promuovere il loro modello illiberale.