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Il Covid risparmia l’Africa, ma alcuni governi ne approfittano per scatenare repressioni e conflitti civili

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In Africa i casi di Covid-19 sono 1.494.524, metà dei quali in Sudafrica, e i morti 33.152, due terzi dei quali anch’essi in Sudafrica. Sono pochi rispetto al totale mondiale che il 29 novembre era di 61.869.330 casi e 1.448.896 morti. Finora la “seconda ondata” della pandemia in Africa non è arrivata e la prima ha avuto conseguenze molto meno gravi del previsto, nonostante molti stati abbiano introdotto poche misure di contenimento dei contagi. Il Tanzania, addirittura, dopo le prime settimane ha deciso che la vita doveva continuare. Il primo caso è stato individuato il 16 marzo e il governo ha chiuso le scuole, disposto che i mezzi pubblici trasportassero meno passeggeri e che bar e ristoranti limitassero il numero degli avventori. Mercati, negozi, attività produttive, tutti i luoghi di lavoro e di culto sono rimasti aperti. Poi, il 29 aprile, quando i casi erano diventati 509 e i morti 21, il presidente della Repubblica John Magufuli ha annunciato la sospensione dei rapporti sull’andamento della pandemia per non spaventare la popolazione. “Abbiamo una quantità di malattie virali, tra cui l’Aids e il morbillo – ha replicato Magafuli alle critiche – la nostra economia viene per prima, non si deve fermare, la vita deve continuare. Gli altri Paesi africani verranno da noi a comprare cibo nei prossimi anni, mentre patiranno le conseguenze di aver fermato le loro economie”.

Anche dove sono stati introdotti limiti alle attività economiche e sociali, nel complesso il Covid-19 non ha interferito con la vita politica, non più di altre malattie. Si è votato in Costa d’Avorio, Tanzania, Guinea Conakry e Burkina Faso. I candidati hanno organizzato le loro campagne elettorali, con i consueti raduni di sostenitori. Il giorno del voto lunghe code si sono formate come al solito davanti ai seggi. Piuttosto è successo che alcuni capi di stato e di governo abbiano approfittato del coronavirus.

In Uganda la pandemia è servita come pretesto per arrestare Bobi Wine, il candidato alle elezioni presidenziali previste a gennaio, principale avversario del presidente Yoweri Museveni, in carica dal 1986 e determinato a rimanerci: l’accusa a Wine è aver diffuso il coronavirus… decidendo di indire un raduno politico. I suoi sostenitori non l’hanno presa bene e hanno organizzato proteste che sono state represse duramente. Nella sola capitale Kampala la polizia ha ucciso 45 dimostranti.

In Angola e in Etiopia, invece, governi desiderosi di guadagnare tempo per consolidare i partiti di maggioranza hanno approfittato della pandemia per rimandare il voto. In Angola si sarebbero dovute svolgere le elezioni locali, ma sono state ripetutamente rinviate, l’ultima volta a settembre, e adesso lo sono a tempo indeterminato. A ottobre delle violente manifestazioni antigovernative hanno scosso la capitale Luanda, represse con la consueta brutalità dalle forze dell’ordine che hanno eseguito decine di arresti. Le proteste non autorizzate sono riprese a novembre: per il diritto al voto e anche contro la corruzione, la violenza della polizia e la disoccupazione. Sono state disperse da agenti in assetto di guerra che hanno attaccato i dimostranti ferendone diversi.

In Etiopia il rinvio del voto è stata l’occasione che il Fronte popolare di liberazione del Tigray (Tplf) aspettava per dare il segnale della rivolta contro il governo federale. A marzo, quando nel Paese i casi confermati erano 25 su una popolazione di quasi 110 milioni, il primo ministro Abiy Ahmed ha deciso di rimandare le elezioni finché non finirà la pandemia. A settembre la regione del Tigray ha deciso di andare lo stesso alle urne. Il primo ministro Abiy ha dichiarato il voto illegale e l’esito, tutto a favore del Tplf, nullo. La prova di forza tra il governo e il Tplf è continuata nelle settimane successive finché il 4 novembre il Tplf ha attaccato e occupato una base militare delle truppe federali a Macallè, la capitale della regione. Abiy ha immediatamente reagito ordinando una offensiva militare che si è conclusa il 28 novembre con l’ingresso delle truppe federali a Macallé.

Il Tigray sostiene di lottare per il proprio diritto all’autodeterminazione minacciata dal governo federale, ma la vera posta in gioco, come sempre in Africa, è il controllo dell’economia nazionale alla cui perdita i leader del Tplf non si rassegnano. I tigrini rappresentano soltanto il 6 per cento circa della popolazione, ma hanno controllato la vita politica ed economica del Paese per quasi 30 anni, da quando nel 1991 il Tplf ha deposto il governo militare di Mènghistu Hailé Mariàm, il Negus Rosso. Meles Zenawi, leader del Tplf, da allora ha governato con pugno di ferro, reprimendo sistematicamente il dissenso, come presidente della Repubblica, dal 1991 al 1995, e come primo ministro, dal 1995 fino alla morte sopravvenuta nel 2012.

L’inizio delle tensioni tra il governo e il Tplf risale al 2018 quando il primo ministro Abiy ha accusato, in verità del tutto a ragione, i governi precedenti di corruzione e violazioni dei diritti umani rimuovendo dalle cariche molti elementi chiave del Tplf. Poi un anno fa, nel dicembre del 2019, Abiy ha deciso di fondere i partiti a base etnica che componevano l’Eprdf, la coalizione di governo che nel 2015 ha conquistato il 100 pe cento dei seggi parlamentari, in un unico partito, il Partito della Prosperità. Il Tplf ha rifiutato di entrare nel PP sostenendo che l’iniziativa del premier mirava a smantellare la struttura federale del Paese e sostituirla con un sistema di governo centralizzato.

Si è aperta così la crisi politica che adesso rischia di scatenare un conflitto civile. I combattenti del Tplf in fuga e i loro leader potrebbero rifugiarsi sulle montagne e da lì lanciare una guerra di guerriglia contro il governo federale. Il primo ministro Abiy Ahmed non si fermerà fino a quando il Tigray non sarà sotto pieno controllo. Debretsion Gebremichael, il leader tigrino, ha più volte dichiarato nei giorni scorsi che il Tplf è deciso a combattere gli “invasori” e che non deporrà mai le armi. Si ritiene che possa contare su circa 250.000 combattenti ben addestrati.

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