Il diritto alla libera scelta, all’autodeterminazione, alla possibilità di orientare la propria vita verso legittime aspirazioni e prospettive. Sembrerebbero tratti irrinunciabili, tipici delle società liberali, tanto nelle intenzioni quanto negli ordinamenti. Ma siamo così sicuri che la realtà corrisponda alla teoria? Esistono, forse, ostacoli al godimento di libertà imprescindibili? Negli ultimi due anni abbiamo assistito a ingiustizie diffuse, a restrizioni progressive, a sconfinamenti della politica entro i perimetri inviolabili delle esistenze individuali. Il pubblico ha dapprima abbracciato il privato, poi l’ha stritolato, soffocandone il respiro e la manovra. Le ragioni “nobilissime”, e tutte “urgentissime”, sono state sgranate seguendo la litania faziosa e stantia di un rosario incapace di trascendenza. Il terrorismo, le crisi economiche, la pandemia e ora la guerra: la strada che conduce agli inferi della ragione è sempre costellata di ottimi propositi. Ci si impoverisce progressivamente, barattando angoli di esercizio di un’umanità autentica, in cambio di metri quadrati di finta sicurezza e garanzia. Il giogo non è meno gravoso se il metallo è prezioso, per dirla in rima.
Siamo qui a raccontarvi una discriminazione inammissibile, inaccettabile, cioè quella legata alle condizioni di salute di una persona. La Costituzione, la nostra fonte giuridica primaria e principale, tutela la salute dell’individuo e della collettività, garantendo cure gratuite agli indigenti. La Costituzione, tuttavia, è spesso disattesa, non per un presunto utopismo della Carta, ma per le gravi e molteplici incapacità degli attori, chiamati a inverarla, a renderla attuale nel concreto della nostra quotidianità. La politica, insomma, non è sempre stata all’altezza del suo compito. Tocca, pertanto, al mondo associativo sopperire a queste mancanze, sollecitando dal basso l’azione di una classe politica troppo spesso sonnecchiante e scarsamente vigile, lontana dalle reali esigenze dei cittadini.
Una particolare attenzione merita, in proposito, la Fondazione AIOM che si batte da tempo per il riconoscimento del diritto all’oblio oncologico, cioè della possibilità, per una persona attestante una guarigione clinica, di non vedersi costretta a dichiarare il proprio trascorso, mentre si accinge a stipulare un contratto per accedere a un mutuo, a un prestito, a un’assicurazione, o mentre rincorre il sogno, sacrosanto, di diventare genitore, mediante l’istituto giuridico dell’adozione. In molti Paesi europei, quali la Francia, il Lussemburgo, il Belgio, l’Olanda e il Portogallo, l’oblio oncologico è un diritto riconosciuto e garantito. In Italia, anche su questo fronte, il ritardo è davvero disarmante. Una piaga tra le piaghe, una ferita che non si rimargina. La persona appare quindi vittima e ostaggio del suo passato, privata persino del suo futuro, incatenata a un presente senza speranza. Alla guarigione clinica non segue quella sociale, indipendentemente dalla patologia neoplastica e dagli anni trascorsi, senza ricadute o recidive.
La Fondazione AIOM, nata nel 2005, attiva su tutto il territorio nazionale, favorisce la promozione di una cultura dell’assistenza oncologica, improntata alla cura del malato e al rispetto della sua dignità di persona. Sostiene la ricerca clinica indipendente, soprattutto nell’ambito della prevenzione della malattia. Guarda all’uomo, non soltanto al suo male, garantendo vicinanza, comprensione e aiuto psicologico. È possibile contribuire alla realizzazione della campagna, lasciando la propria firma online per la proposta di legge. A volte, un semplice gesto può fare la differenza.