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Il fallimento della rivoluzione islamica iraniana: agli oppressori di prima si sono sostituiti nuovi oppressori

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Oggi, 11 febbraio, in Iran è un giorno “di festa”: si celebra la Giornata della Rivoluzione, giorno in cui le Forze Armate iraniane (Artesh) dichiararono la loro neutralità, permettendo così di fatto la vittoria dei khomeinisti e delle forze rivoluzionarie alleate dell’ayatollah (alleati poi considerati scomodi ed eliminati nemmeno due anni dopo il 1979).

È possibile tracciare un bilancio di questi anni di Rivoluzione Islamica? Chi scrive ritiene che il miglior modo per farlo sia quello di usare i termini stessi per cui la Rivoluzione ha avuto successo e per cui è riuscita ad eliminare il regime dello Shah: ovvero il successo dei “Mustadafin” – ovvero gli oppressi – contro i “Mostakbarin”, ovvero gli oppressori.

Non c’è miglior formula di quella elaborata dall’ideologo di sinistra Ali Shariati per descrivere la nascita della Repubblica Islamica. Si può pensare tutto il male del mondo di Khomeini e del suo successo, ma non è possibile comprenderlo senza ricordare le storture nel Paese provocate dal potere quasi assoluto dello Shah Mohammad Reza Pahlavi, che si riteneva ormai praticamente un semidio sceso in terra e che – nonostante il maggior secolarismo del Paese – aveva fondato il suo potere sul terrore e sugli squilibri sociali.

Tuttavia, se tanto ci dà tanto, con lo stesso parametro dovrebbe essere giudicata oggi la Repubblica Islamica. La domanda quindi è: a 41 anni dal 1979, la Rivoluzione Islamica può essere considerata un successo? Può essere veramente proclamata in Iran la vittoria degli oppressi sugli oppressori? Nonostante alcuni progressi del regime – soprattutto nel campo dell’educazione scolastica – la risposta non può che essere negativa.

In questi anni, infatti, coloro che hanno fatto la Rivoluzione (la prima generazione dei chierici) e coloro che hanno permesso il passaggio dalla fase rivoluzionaria a quella post-rivoluzionaria (ovvero i Pasdaran e i Basij, che hanno combattuto la guerra contro l’Iraq), si sono essi stessi trasformati da “Mustadafin” a “Mostakbarin”, ovvero da oppressi a oppressori.

In primis, sono diventati oppressori del loro stesso popolo, quanto se non peggiori dello Shah: chierici e Pasdaran, alleati, hanno organizzato e messo in atto le repressioni più violente che si ricordino nel Paese contro le proteste popolari di massa: nel 1999 (Università di Teheran), nel 2009-2011 (Onda Verde), nel 2017-2018 (proteste contro il ruolo dei Pasdaran nel settore bancario), a fine 2019 (per l’aumento del prezzo del carburante) e le “proteste della vergogna” dell’inizio del 2020 (dopo l’abbattimento dell’aereo civile ucraino sui cieli di Teheran). In questo senso, quindi, il fallimento della Repubblica Islamica nei confronti della terza generazione di giovani iraniani – ovvero la maggioranza, coloro che non hanno mai vissuto la rivoluzione, né la guerra in Iraq – è un dato di fatto. Contro questi “Mustadafin” – esclusi totalmente dai giochi di potere iraniani e spesso privi di ogni speranza per il futuro – i chierici e i Pasdaran si sono comportati proprio come dei “Mostakbarin”.

Ma c’è di più: anche la politica estera iraniana può essere misurata con lo stesso metro di giudizio di quella interna. La Repubblica Islamica in questi anni ha sempre descritto le sue attività internazionali come un sostegno ai popoli oppressi contro gli oppressori. Per alcuni anni questa propaganda ha funzionato, permettendo a Teheran di espandere il suo potere esterno. A 41 anni di distanza, però, il giochino si è rotto.

Lasciando perdere gli Stati Uniti e Trump, è un dato di fatto che oggi la Repubblica Islamica sia passata agli occhi di molti giovani arabi dalla parte dei “Mustadafin” alla parte dei “Mostakbarin”, ovvero dalla parte degli oppressi alla parte degli oppressori. È così in Libano e in Iraq, dove ad esempio l’Iran sostiene governi privi di legittimità popolare, nati proprio dopo l’esplosione delle proteste popolari contro la corruzione e contro l’interferenza di Teheran. È cosi anche nella Striscia di Gaza, dove l’Iran sostiene Hamas e la Jihad Islamica, considerati dai gazawi ormai come degli oppressori. Anche sul piano della politica estera, quindi, è possibile dichiarare il fallimento della Repubblica Islamica, passata ormai ufficialmente nel campo degli oppressori. E tra l’altro, nonostante le repressioni, le manifestazioni a Beirut e Baghdad contro l’influenza di Teheran continueranno, indipendentemente da Trump.

Ovviamente, politica interna e politica estera si incrociano: la migliore immagine di questo incrocio sono i giovani iraniani che, mettendo a rischio la propria vita, scendono in piazza gridando lo slogan “No Gaza, No Libano, la mia vita solo per l’Iran” e che rifiutano di calpestare le bandiere di Stati Uniti, Gran Bretagna e Israele. Sono loro i Mustafadin 2.0, una generazione che si sente persa, non solo esclusa dal potere, ma anche defraudata di una vita dignitosa, con un lavoro, una famiglia e il diritto di esprimersi senza paura. Presto o tardi, saranno proprio questi Mustafadin 2.0 che si libereranno dei Mostakbarin 2.0.