Il genocidio dei circassi da parte della Russia zarista: una pulizia etnica con metodi “moderni”

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Più di dieci anni fa, quando ancora andavo al liceo, vinsi un concorso per prendere parte a una settimana di studio e orientamento internazionale organizzata dalla Normale di Pisa. Si trattava di un’iniziativa molto British, soprattutto per lo stile organizzativo e la vita da campus che prevedeva, ma immagino che non rivesta per voi un particolare interesse; in effetti, ve lo racconto perché il caso volle che fossi messo in camera con un ragazzo altissimo, dai capelli corvini e dalla pelle incredibilmente pallida. Si chiamava Emre, veniva da Istanbul ma ci teneva a sottolineare di non essere turco, bensì circasso. Al tempo, ero già appassionato di storia etno-culturale, e fui talmente incuriosito, da superare una certa innata timidezza e chiedergli di raccontarmi brevemente la storia del suo popolo. Alla mia domanda, si intristì immediatamente, e mi fornì una spiegazione breve, come se parlarne gli costasse troppo, ma che non avrei mai dimenticato: la storia di uno dei più gravi genocidî mai compiuti a memoria d’uomo. Adesso, credo che possa essere il momento per raccontare anche a voi questa vicenda, con grande rigore storiografico ma con altrettanta brevità -almeno, lo spero.

I circassi sono un popolo caucasico, che storicamente occupava un territorio molto vasto sul versante settentrionale del Caucaso. Di fede islamica, erano a lungo stati divisi in varî principati, di volta in volta vassalli della Sublime Porta, dei varî Khanati mongoli e turchi e di altre potenze della regione, ma nel XVIII secolo si erano riuniti in una Confederazione, la cui indipendenza era stata ufficialmente riconosciuta dalle nazioni occidentali come il Regno Unito, ma anche dagli ottomani e dai russi. L’esistenza di un’entità sempre meglio organizzata, tuttavia, rappresentava un ostacolo proprio alle politiche russe, che vedevano l’espansione verso Sud come la naturale conseguenza di quella verso il Mar Nero, che dopo la conquista della Crimea era divenuto sede di attività navali di Pietroburgo. I Circassi, a questo punto – siamo nel 1763 – occupavano quasi per intero quello che è oggi il Caucaso russo: il Krai di Krasnodar, le Repubbliche di Adighea, Karačaj-Circassia, Kabardino-Balkaria, Ossezia del Nord e parte del Krai di Stravopol. Un territorio enorme, molto appetibile e, dal punto di vista russo, poco sviluppato.

Nei piani dei generali di Caterina la Grande, quella regione avrebbe costituito una formidabile fonte di ricchezza, posta in ipotetiche miniere sulle montagne e nell’agricoltura basata sulla servitù della gleba nelle vallate, nonché un impareggiabile punto strategico dal quale controllare l’intera sponda nord ed est del Ponto e, all’occorrenza, attaccare anche il Caucaso meridionale, sia di parte persiana che ottomana. La guerra si dimostrò però da subito molto ardua da portare avanti, un vero e proprio Vietnam, o, se vogliamo, un Afghanistan. La geografia aspra, fatta di montagne altissime, fiumi impetuosi e valichi assai difficili da espugnare se ben difesi da un pugno di uomini, giocava contro i russi e le loro tattiche da manuale di accademia europea, così come la riottosità dei circassi a finire sotto il loro dominio.

Le ostilità si trascinarono quindi per più di mezzo secolo senza che reali progressi venissero compiuti, con importanti conseguenze sul morale degli occupanti, che vedevano costantemente frustrati i grandi piani che avevano per la regione e manifestavano un sempre maggiore disprezzo per i locali, dipinti nella capitale come selvaggi, “animali di montagna” di natura meno che umana. Per un trentennio, la Russia dovette affrontare nemici più preoccupanti, ma una volta sconfitto definitivamente Napoleone poté concentrare le proprie attenzioni interamente sui fronti balcanici e asiatici. Anche nel Caucaso vi fu una svolta, un cambio di passo: nel 1818, fu inviato dallo zar a dirigere le operazioni un eroe delle guerre napoleoniche: il generale Aleksej Petrovič Jermolov. Jermolov si mostrò immediatamente animato dal più profondo disgusto per la cultura circassa, e informò chiaramente le autorità, appena giunto in loco, delle sue intenzioni di colpire indiscriminatamente la popolazione civile “distruggendo villaggi, confiscando ogni proprietà, uccidendo tutte le donne e i bambini di questi infami briganti”.

Anche se il generale avrebbe lasciato il Caucaso pochi anni dopo, tutti i suoi successori avrebbero implementato le tattiche da lui proposte, con sempre maggiore ferocia man mano che la guerra si protraeva di decennio in decennio, dissanguando le casse statali e divenendo un motivo di imbarazzo internazionale. La causa circassa – come veniva definita dai giornali inglesi – aveva infatti trovato molti simpatizzanti nel Regno Unito che, a partire dagli anni ‘30 dell’Ottocento, provvide a rifornire costantemente di armi e consiglieri militari i circassi, ma anche tra gli esuli polacchi, che vedevano in loro una riproposizione della propria sfortunata lotta contro i russi, e si unirono in buon numero alle truppe locali.

Gli ambiziosi piani russi, che prevedevano di sostenere guerre contro l’impero persiano, quello ottomano e le varie nazioni centroasiatiche per espandere quanto più possibile i confini dell’impero, si trovavano così a finire in una sorta di impasse proprio in questa regione strategicamente fondamentale. Dopo 80 anni di guerra, erano riusciti a conquistare solo la parte orientale della Circassia, a costo di enormi perdite e della distruzione pressoché totale delle terre conquistate. Emerse a questo punto quella che sarebbe stata una strategia ricorrente per tutto il secolo successivo, non solo nell’Unione Sovietica staliniana, come spesso si pensa: quello delle rimozioni forzate di popolazioni e della loro sostituzione con elementi etnici russi, la cui fedeltà all’impero era posta come fuori discussione.

Nei venti anni successivi, la Circassia si sarebbe ritrovata al centro dello scacchiere internazionale, la cui complessità, nel periodo a cavallo della Guerra di Crimea e non solo, è tale da sconsigliarmi dal tentare di illustrarvelo in modo semplicistico – o, come si dice oggi con un’espressione tanto agghiacciante quanto á la mode “di spiegarvelo semplice”. Basterà sapere che Francia e Regno Unito cercavano di contrastare sia l’espansione russa che di ostacolarsi l’un l’altro – così che la Francia appoggiò per anni lo sforzo bellico russo nel Caucaso – l’Austria e la Russia puntavano ad approfittarsi della debolezza ottomana, e i turchi di barcamenarsi per tenere in piedi un impero minato sempre più dalle tensioni etniche fomentate dalla Russia. In questo scenario, i circassi si ritrovarono presto costretti a poter contare pressoché soltanto sulle loro forze, dopo che i turchi dovettero ripiegare su posizioni difensive, e dato che l’aiuto inglese era fortemente limitato dalla distanza geografica e dalla impossibilità di far giungere rifornimenti regolari, specie da quando la flotta russa imponeva un blocco alla costa circassa.

La guerra si fece man mano più cruenta, con l’imporsi di capi locali che ciclicamente riuscivano a proporsi come guide unitarie di tutte le varie tribù e correnti, e i generali russi che si distinguevano per sempre maggiore ferocia. Su tutti svetta senza dubbio Grigorij Zass, sul quale la storiografia si trova in difficoltà a distinguere la verità storica dalle leggende, tanto macabra è stata la sua figura. Se infatti non possiamo dirci sicuri del fatto che si portasse sempre dietro dei bauli colmi di arti e membra di circassi da lui personalmente seviziati, è storicamente accertato che abbia portato avanti una campagna di distruzione sistematica di centinaia di villaggi, dati alle fiamme con tutta la popolazione al loro interno, di stupri di massa ai danni non solo delle donne ma anche dei bambini, di esecuzioni di prigionieri a migliaia e di diversi episodî di profanazione dei cadaveri delle vittime ad opera delle sue bande di cosacchi di Kuban.

Una tale ferocia, confermata dai rapporti degli inviati britannici che ancora riuscivano ad introdursi nel Caucaso settentrionale, diede lentamente i suoi frutti, finché, negli anni ’50 del XIX secolo, i Circassi furono costretti a ritirarsi nella parte occidentale delle loro terre, intorno alla capitale Soči – la città sede delle propagandistiche Olimpiadi invernali del 2014, contro le quali la comunità della diaspora circassa ha infatti protestato. Alla fine, dopo che alcuni leader ebbero compiuto una missione in Gran Bretagna, riscuotendo grande simpatia da Dundee a Londra e da Edimburgo a Manchester e ottenendo finanziamenti per l’acquisto di armi e di viveri per la popolazione ormai allo stremo, un ultimo esercito circasso fu schierato solo per essere definitivamente sconfitto in battaglia nel 1864. Come conseguenza, i capi del Parlamento circasso dovettero firmare una resa senza condizioni, nella speranza che le sofferenze per il loro popolo potessero essere giunte ad una fine.

Purtroppo, al contrario, iniziava in quel momento la parte peggiore. C’è vasta abbondanza di documentazione sull’atteggiamento profondamente razzista da parte delle autorità militari russe nei confronti di questa popolazione, descritta in termini inequivocabili come “subumana”. I russi avevano poi l’esigenza strategica di non permettere la permanenza di un gruppo così numeroso (quasi 2 milioni di persone ancora alla fine della guerra) in un punto nevralgico dell’impero, al di qua di quella che era la nuova linea di confine e di fronte con gli ottomani. Il generale Jevdokimov ricevette l’ordine di procedere a quella che all’epoca venne definita “rimozione”, ma che fu una vera e propria pulizia etnica condotta con tecniche genocidarie, e compiuta da unità mobili di fucilieri e di cavalieri cosacchi, che operavano in modo sorprendentemente simile agli Einsatzgruppen nazisti. Pressoché ogni insediamento circasso fu raso al suolo, la popolazione massacrata sul posto o scortata verso le montagne in marce della morte, nelle quali perirono centinaia di migliaia di persone: i più attendibili dati di cui disponiamo parlano di un numero di vittime da collocarsi tra 800 mila e 1,5 milioni. Poco meno di un altro milione riuscì a giungere alla frontiera turca, come registrato dalle autorità ottomane, che procedettero a sistemare gli esuli nelle varie terre che ancora appartenevano loro. Dopo un secolo di guerra, in territorio russo erano rimasti circa 75.000 circassi, isolati sulle montagne di quella che oggi è l’Adighea, un piccolo enclave all’interno del Krasnodar Krai, e nella Kabardino-Balkaria: a malapena il 5 per cento del loro numero originario.

Questa triste vicenda ha un’importanza rilevante per una serie di motivi e di caratteristiche peculiari: innanzitutto, la sua modernità, che ne fa di fatto un precursore dei grandi genocidî novecenteschi. Se infatti nella storia non sono mai mancate occasioni di sterminio ai danni di popolazioni conquistate, in Circassia siamo di fronte a qualcosa di diverso, di nuovo: i generali russi non razziavano i villaggi dei locali per depredare o per raccogliere degli schiavi da portare nella capitale, ma per annichilire completamente un popolo e sostituirsi ad esso. C’era una volontà di sostituzione etnica assai chiaramente definita e portata avanti con spietato rigore, sistematico e scientifico nell’impiego di ogni mezzo a disposizione. Inoltre, c’era per la prima volta la propaganda, volta a deumanizzare le persone oggetto di persecuzione: anche se non possiamo parlare nella Russia di metà Ottocento di una macchina propagandistica perfettamente oliata e orchestrata, non mancavano i continui riferimenti sui giornali e nelle opere letterarie all’inciviltà delle popolazioni delle montagne del Caucaso, e alla necessità di procedere a una civilizzazione della regione – ancora negli anni ’70 del Novecento, uscivano in Unione Sovietica film di enorme successo come “Rapimento alla caucasica”, che dipingevano gli abitanti delle montagne con forti tratti macchiettistici e offensivi.

I motivi religiosi, che nel passato avevano solitamente costituito la principale giustificazione per rimozioni di popolazioni – basti pensare all’espulsione degli ebrei da Spagna e Portogallo – giocarono effettivamente un ruolo marginale, rispetto a quelli etnico-razziali e politici. Nell’impero esistevano popolazioni musulmane o buddiste tutto sommato ben integrate: i tartari, ad esempio, vivevano in buon numero anche a Mosca e San Pietroburgo, dove erano anzi ricercati per le professioni di cameriere o attendente, per via del loro sicuro essere astemi. Nel caso dei circassi, i temi di natura religiosa vennero usati essenzialmente come una semplice parte del ventaglio di giustificazioni fornite, come confermato dal contenuto del proclama ufficiale con cui, nel 1861, lo zar Alessandro II auspicava la vittoria nella guerra e dava la sua benedizione alla pulizia etnica. A questo proposito, sembra che lo zar intendesse far procedere le operazioni in modo da limitare effettivamente le sofferenze per le popolazioni coinvolte dalla rimozione, ma resta il fatto che non punì mai gli autori delle violenze, conferendo anzi premi in denaro e concedendo facilitazioni ai cosacchi che si stabilivano nelle aree “ripulite”. Secondo le sue stesse parole, quel che restava, una volta ottenuta la completa vittoria militare, erano “anni di sforzi indefessi per espellere definitivamente i montanari ostili [sic] dalle fertili terre che occupano, e insediare nelle stesse una popolazione russa cristiana per sempre”.

Il genocidio circasso fu a tutti gli effetti la prima occasione in cui venne portata avanti una campagna di pulizia etnica concepita in modo moderno: la rimozione sistematica di un gruppo etnico ritenuto inferiore e inadatto a vivere in un territorio che era necessario ad una grande potenza, che in esso avrebbe potuto collocare parte della propria popolazione in espansione. La creazione di uno spazio vitale in territorî da sottrarre a occupanti che non sono degni, da un punto di vista razziale, culturale, economico e politico, di possederli.

Quello di genocidio, si sa, è un concetto che si porta dietro una serie di connotazioni particolarmente sgradite, e di solito la sua attribuzione a un evento storico comporta sempre una notevole mole di polemiche, tanto a livello accademico quanto politico. In questo caso, tuttavia, in campo storiografico vi è un accordo pressoché totale, e non esiste alcun fenomeno organizzato di revisionismo. Non esiste, almeno, al di fuori della Federazione Russa. La Russia, in effetti, ha negli ultimi 30 anni costantemente rifiutato di riconoscerne l’esistenza, ha tentato di minimizzarne la portata e di metterne in dubbio le dinamiche e le proporzioni, e ha negato qualsiasi riconoscimento, come chiesto da numerosi stati (tra cui la Romania, che storicamente aveva accolto una comunità di circassi), di molte organizzazioni internazionali e perfino di alcune delle sue Repubbliche interne nel Caucaso. Anche sotto questo aspetto, infine, si è registrata una notevole involuzione negli ultimi anni: se Boris Eltsin aveva espresso un timido ma pur aperto rammarico per quanto accaduto, al tempo di Vladimir Putin il mondo accademico russo si è compattato, tanto che oggi può risultare perfino pericoloso raccontare la storia dei circassi e di come furono sterminati e deportati dalle loro terre.

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