Ormai il gioco si è fatto “sporco”, tutto centrato sull’autentico terrore di questo Parlamento di essere mandato a casa anticipatamente, che pervade in modo più intenso il gruppone dei 5 stellati, tratti da un grigio anonimato per essere sbalzati al centro della scena politica, cui dovranno ritornare, lasciandosi alle spalle tutti i privilegi del loro attuale status. Ogni settimana, ogni giorno guadagnato è assaporato come quello di un condannato a morte, la cui esecuzione è già segnata sul calendario, sì da indurre a sognare che una nuova ondata del Covid costringa a posticipare la consultazione elettorale del 2023.
A tutt’oggi il gioco si svolge sulla candidatura di Berlusconi, che se pur non ancora accompagnata da una esplicita adesione, è vissuta non più come una goliardata, ma come una cosa da prendere sul serio. Ecco allora che si tratta di far sparire o far apparire il fantasma delle elezioni anticipate. Dal centrodestra si fa balenare la prospettiva che in una eventuale ascesa al Colle di Mario Draghi, il più gettonato concorrente dell’uomo di Arcore, sarebbe difficile se non impossibile trovargli un successore come presidente del Consiglio, sì da rendere inevitabile la crisi; dal centrosinistra si evoca la quasi certezza che una eventuale conquista del Quirinale da parte di Berlusconi creerebbe una traumatica rottura dell’alleanza larga su cui conta l’attuale governo, col centrosinistra costretto a ritirarsi sull’Aventino.
Personalmente non credo a queste drammatizzazioni ad usum delphini. Per quel che vale non farei troppo affidamento su una elezione di Mario Draghi, che ha in comune con la rielezione di Mattarella di dover contare su una quasi unanimità, con una sostanziale differenza, che il presidente del Consiglio dovrebbe venir fuori se non nelle prime tre, certo nella quarta o nella quinta; mentre il presidente della Repubblica uscente dovrebbe tornar buono in un’ultima. Questa a dar per scontata la loro disponibilità, criptica per Draghi ed esclusa da Mattarella, quest’ultimo con una motivazione incontestabile, che cioè la trasformazione del bis da eccezione a regola costituirebbe una sostanziale violazione della Costituzione; comunque, nessuno dei due rileverebbe questa disponibilità senza la assoluta certezza di una elezione immediata, cosa che è assai difficile garantire con un Parlamento ondivago, poco controllabile, ma dominato da un fortissimo istinto di sopravvivenza se pur temporanea.
Se, dunque, l’elezione di Draghi sarebbe possibile solo con una larghissima intesa, questa non potrebbe concludersi senza l’individuazione della figura del successore, ferma la stessa maggioranza larga, eventualmente con quel patto di legislatura evocato dal segretario del Pd. Il che comporterebbe la creazione di un precedente non proprio in linea col nostro modello costituzionale, non tanto per il passaggio da presidente del Consiglio a presidente della Repubblica, ma per il preliminare, almeno implicito, consenso sul nome del sostituto. Ma è, comunque, evidente che il centrodestra essendone protagonista, non potrebbe certo chiamarsi fuori per la contradizion che nol consente; tenuto anche conto che potrebbe ben rivendicare come sua la scelta, per la figura stessa di Draghi e per la più numerosa contribuzione alla sua elezione.
E invece, che potrebbe succedere con l’elezione di Berlusconi? Neppure qui niente di terribile. Non è immaginabile che Draghi prenda l’iniziativa di andarsene, dando l’impressione che sia una questione di ripicca personale, una reazione troppo lontana dalla sua figura. Si presenterà dimissionario al nuovo presidente della Repubblica, ma non rifiuterà l’invito a restare a meno che il centrosinistra non si chiami fuori. Ma è questa una eventualità più facile da predicare oggi che da ratificare domani, senza, alcuna giustificazione, perché questo è il Parlamento che il Pd si è ostinato a difendere, ironia della storia, perché lo ha fatto per potere eleggere un presidente della Repubblica con tanto di etichetta del partito, come Napolitano e lo stesso Mattarella.
C’è un dato di fatto che riporta il tutto alle sue esatte dimensioni. C’è da scommettere che sia Draghi che Berlusconi, nel loro stesso discorso di insediamento, direbbero chiaro e tondo che la legislatura deve continuare fino alla sua fine naturale, invitando all’unità, ma certo facendo ricordare che il potere di scioglimento delle Camere appartiene all’inquilino del Quirinale, il quale non avrebbe problemi a creare una maggioranza in un Parlamento teso a usufruire appieno anche dell’ultimo scampolo del quinquennio. Per ora c’è solo da aspettare che Berlusconi sciolga la riserva, cosa che sembra gli venga consigliata anche dal suo entourage, ma che trova ostacolo nel carattere e nello stile dell’uomo, cui è attribuito un giudizio su sé stesso estremamente emblematico, che, cioè, è proprio l’impossibile a tentarlo, col sottofondo implicito che quanto è ritenuto impossibile dagli altri non è visto e vissuto come tale da lui, certo confortato in questo dal suo intero passato.
Ma forse è sbagliato pensare che la sua eventuale discesa in campo possa considerarsi fallimentare se non riuscirà ad assicurargli una sia pur striminzita maggioranza assoluta, perché potrebbe bastare di poter contare su una adesione maggiore di quella espressa dal centrodestra, per diventare effettivamente il king maker, riconfermando il suo ruolo storico di referente unico e insostituibile del centrodestra. Sminuire l’adesione ad una sua presentazione da parte di Salvini e Meloni, come meramente formale, data con la precisa consapevolezza di una scarsa praticabilità, non sembra cogliere l’effettiva problematicità di un centrodestra rispetto a cui solo la presenza di Berlusconi assicura l’essere Forza Italia assolutamente determinante per una maggioranza elettorale, attestata sulla difesa della legge elettorale esistente, contro ogni tentazione proporzionale dei centristi. Ma anche e soprattutto assicura la non concorrenza aperta fra Lega e Fratelli d’Italia, destinata a riemergere una volta che l’uomo di Arcore perdesse il suo ruolo di federatore, come eletto o come king maker, tanto è vero che sia Salvini sia la Meloni si sono riservati di prospettare candidati tenuti in pectore per la seconda battuta. Si veda per contrasto quanto l’assenza di un federatore, come a suo tempo è stato Prodi, penalizzi profondamente il centrosinistra, che a tutt’oggi non è riuscito a concordare neppure una tattica comune, immaginiamoci una strategia.
Né si deve dimenticare che per quanto comprensibilmente il “giallo” del Quirinale ipnotizzi la politica parlata o ancor meglio orecchiata, con una spasmodica attenzione dei mass media, esso è vissuto nel Paese in modo assolutamente distratto, sintomo di un distacco che ha trovato riscontro nell’elezione recente di una deputata con un 11 per cento bello rotondo. La doppia emergenza pandemica ed energetica non è affatto superata, né è prevedibile sapere quando lo sarà, cosa questa che impone alle forze politiche di conciliare la responsabilità richiesta dalla situazione con la affermazione identitaria destinata a caratterizzare un anno elettorale quale il 2022. Affermazione, questa, che non potrà consistere nella riesumazione di vecchie e trite polemiche, tanto del berlusconismo quanto dell’antiberlusconismo di maniera, c’è da ritornare a parlare al Paese nella sua quotidiana sofferta fatica.